di Luca Bianchin
In un passo centrale dei Quaderni di Simone Weil si legge: «Definire il reale. È ciò che più importa».1 Dare ragione di questa sentenza sembra essere lo scopo che Robert Chenavier persegue nel volume Simone Weil. L’attenzione al reale, pubblicato da Asterios Editore con la curatela di Federica Negri, che ne firma anche la traduzione e la postfazione. Tentare di de-finire l’opera di Simone Weil con uno slogan, operare unareductio in grado di produrne un commento, uno schema, un riassunto esaustivi è un’operazione fallimentare.
Forse, una tale impresa risulterebbe improduttiva con le opere di tutti i pensatori liberi, ma assume, nondimeno, un significato particolare con l’opera della Weil, la quale in soli trentaquattro anni di vita si rende protagonista di così tante esperienze (pratiche e teoretiche) da far sì che la sua figura risulti ununicum, se non nella storia della filosofia, sicuramente in quella della filosofia novecentesca.
Forse, una tale impresa risulterebbe improduttiva con le opere di tutti i pensatori liberi, ma assume, nondimeno, un significato particolare con l’opera della Weil, la quale in soli trentaquattro anni di vita si rende protagonista di così tante esperienze (pratiche e teoretiche) da far sì che la sua figura risulti ununicum, se non nella storia della filosofia, sicuramente in quella della filosofia novecentesca.
Lo sa bene Chenavier, il quale non nasconde – già dalle primissime battute della sua Introduzione – la difficoltà di circoscrivere la poliedricità di un pensiero che non si riduce «mai [a] una specie di sistema» (p. 11). Tuttavia, anche se il compito si presenta arduo, l’autore non indietreggia dinnanzi alla difficoltà che lui stesso dichiara, ed è proprio questa consapevolezza a suggerirle il metodo per penetrare gli scritti della Weil – e produrre un saggio che, per completezza ed esaustività, si presenta come un’ottima guida introduttiva a coloro i quali volessero avere una visione a tutto tondo del pensiero weiliano: se, infatti, la Weil ci costringe a passare da un autore all’altro («Marx e Platone, questa strana coppia della filosofia», come scrive Federica Negri nella Postfazione [p. 116]), da una professione all’altra (professoressa liceale, operaia di fabbrica, contadina in una fattoria…), da un campo del sapere all’altro (filosofia, letteratura, religione, mistica…), l’unico modo per rendere giustizia a queste costellazioni esistenziali, senza sacrificarne o esaltarne nessuna (corrompendo l’immagine che si restituirebbe della pensatrice francese), è quello di presentarle tutte, nella loro evidenza, nella loro apparente contraddittorietà.
Ciò che emerge dal volume di Chenavier è l’immagine “camaleontica” della Weil in tutta la sua stupefacente grandezza, che l’autore tratteggia con scientifico distacco e chirurgica precisione. Il compito di consegnare al lettore l’idea di quello che è stato l’iter intellettuale ed esistenziale della Weil è affidato al primo capitolo, Dalla “vita reale” al “paese reale”, nel quale (volutamente) l’autore ripercorre, senza pause e in un vortice di informazioni, tutti i sentieri percorsi dalla Weil durante il suo cammino.
È invece compito degli altri capitoli esplicitare e dare ragione dei concetti chiave emersi nel primo. Nel secondo capitolo, per esempio, L’esercizio del pensiero filosofico, Chenavier prende in esame gli studi che Weil conduce in merito al problema sociale, che trova come punto di massima manifestazione le condizioni lavorative degli operai di fabbrica. La teoria del lavoro – in base alla quale quest’ultimo riproduce la necessità a cui è sottoposto il reale e avvicina il lavoratore a tale consapevolezza in quanto lo obbliga a questa necessità riprodotta («Il lavoratore è colui che, agendo secondo le necessità della geometria, prova la verità delle necessità concepite, ne prova la necessità reale» [p. 38]) – richiede un’«analisi della conoscenza» (p. 40) in grado di evidenziare come questa funzione del lavoro è ostacolata dalle forme sociali di produzione. Come giustamente nota Chenavier, Weil è costretta a rileggere Marx, denunciando una nuova divisione di classe (in cui il termine di distinzione è costituto non dal capitale, ma dalla macchina stessa) e mostrando come l’oppressione (ovvero l’«esteriorizzazione di un processo che imita lo spirito, pur essendo diverso» [p. 49]) deve venir meno prima dell’atto rivoluzionario, che altrimenti risulterebbe inutile.
Nel più vasto progetto di edificazione di una scienza che sia in grado di ripensare le condizioni di esercizio dell’intelletto all’interno dello spazio lavorativo, Weil approfondisce il suo confronto dialettico con Marx, riconoscendo al materialismo e alle soluzioni che esso propone dei «frammenti di pura verità» (p. 53). Di questo tratta il capitolo terzo, Sul buon uso del materialismo, nel quale Chenavier ha il grande merito di collegare le riflessioni socio-politiche della Weil con i problemi di matrice religiosa che, a partire dal 1936, diventeranno centrali nella produzione della pensatrice francese. L’intento di fondare una «spiritualità del lavoro» (ibidem) considerando il materialismo come un valido alleato, si giustifica alla luce di quella che si potrebbe definire l’“ontologia” weiliana: reale e necessità sono una sola e medesima cosa, in quanto tutto ciò che è reale è sottomesso alla necessità. Qui Platone e Marx sono, finalmente, vicinissimi: «Tra il vero materialismo e la spiritualità autentica non vi è alcuna contraddizione reale» (p. 60).
In realtà un’ontologia di questo tipo richiede, per essere fondata, quella che potrebbe venir detta – sempre tra opportune virgolette – una “teologia”, o comunque una riflessione sul divino. Filosofia e spiritualità, così titola il capitolo quarto, ha lo scopo di mettere in luce il rapporto complesso, tormentato e profondo che Simone Weil instaura col cristianesimo. Un vero e proprio pólemos tra lei e Dio, nel quale nessun aspetto della sua spiritualità viene lasciato insondato. Chenavier descrive con cura tutti questi passaggi, mostrando la radicalità degli interrogativi posti dalla Weil – e la radicalità con la quale questi interrogativi sono vissuti, esternati, realizzati. Il capitolo quinto, La “decreazione”, completare la creazione chiude questo giro di riflessioni soffermandosi sul concetto centrale di “decreazione”, in base alla quale nell’atto creativo Dio si ritira, compiendosi come necessità (materialismo) e offrendoci un’esistenza libera (cristianesimo, ma anche platonismo [cfr. p. 89]). In seno a questo discorso, uno degli aspetti più interessanti è sottolineato da Chenavier quando richiama l’attenzione sull’oggetto delle ricerche della Weil, che lei stessa definisce essere non il soprannaturale, «ma questo mondo» (p. 92); indicativo di un’indole che non si lascia distrarre dalle questioni metafisiche, per quanto urgentemente avvertite, ma ritorna sempre su quello che è percepito come il problema più importante di tutti: il reale. In contrapposizione a certe pratiche tipiche della meditazione cristiana, la Weil dichiara apertamente che «contemplare il sociale è una via altrettanto buona che ritirarsi dal mondo» (p. 93).
Con questa attenzione al momento pratico della speculazione weiliana termina anche il testo, che in sede conclusiva ritorna a sottolineare come la Weil sia “donna del suo tempo” in un senso filosofico profondo: «Simone Weil, infatti, non poteva che essere una filosofa esposta agli avvenimenti del suo tempo. I tormenti e gli strazi più visibili testimoniano di quella difficoltà che ha provato, non tanto a seguire la sua vocazione quanto a sapere quali mediazioni reali è necessario adottare, nelle circostanze del momento, per realizzarla invece di distruggerla» (p. 103).
Nota al testo
1S. Weil, Quaderni, ed. it. a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1988, vol. III, p. 175.
Fonte: Azioni Parallele
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