La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 4 agosto 2016

Sul sapere di polizia e sulle sue ambiguità

di Enrico Gargiulo
Presentato nella sede istituzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri il 27 ottobre 2015, il volume Dieci anni di ordine pubblico. Focus sulle manifestazioni politiche – sindacali – sportive (Roma, Eurilink, 2015) si pone l’obiettivo di tracciare il bilancio di una decade di gestione delle piazze e degli stadi mettendo a disposizione del lettore «elementi oggettivi di conoscenza» (p. 26). Più in dettaglio, il libro curato da Armando Forgione[1], Roberto Massucci[2] e Nicola Ferrigni[3] – i primi, alti gradi della polizia; il terzo, ricercatore sociale – fornisce un’analisi socio-statistica, ossia basata sui dati quantitativi prodotti principalmente dall’Ufficio Ordine Pubblico e dal Centro Nazionale di Informazione sulle Manifestazioni Sportive (CNIMS), relativa a diversi tipi di eventi collettivi.
Dieci anni di ordine pubblico, insomma, si presenta come un testo tecnico e asettico, frutto della collaborazione tra personalità interne alla polizia di stato e il mondo accademico, orientato a informare gli addetti ai lavori e i semplici cittadini su come le forze dell’ordine, in un arco temporale segnato da un’importante crisi economica, hanno mediato il conflitto sociale e garantito la sicurezza pubblica. La tesi di fondo, che emerge in maniera più o meno esplicita nel corso del volume, è che la crescente professionalizzazione della polizia e il senso della misura di cui i suoi membri sono dotati abbiano consentito di gestire in maniera adeguata, e mediante un uso legittimo della forza, eventi e situazioni di non facile governo.
A detta degli autori, due momenti, in particolare, sono emblematici della buona amministrazione complessiva dell’ordine pubblico: con riferimento alla decade 2005-2014, il successo del “modello italiano per la sicurezza negli stadi”; per quanto riguarda il 2015, la reazione dell’opinione pubblica agli scontri avvenuti in occasione del corteo milanese del 1 maggio, che sarebbe stata del tutto favorevole nei confronti della polizia e di totale condanna verso i manifestanti «violenti» (p. 38). Più in generale, le differenze di comportamento tra forze dell’ordine e civili in termini di ricorso alla violenza e di atteggiamento tenuto in piazza sarebbero testimoniate da un dato che ricorre ripetutamente nel libro: il numero di feriti nelle manifestazioni. Stando alle cifre fornite dalle istituzioni coinvolte e alle elaborazioni statistiche realizzate per la stesura del testo, «il numero dei feriti tra le Forze di Polizia dal 2005 al 2014 appare di gran lunga superiore al numero dei feriti registrato tra i civili» (p. 57).
L’incontro con questo dato, tuttavia, lascia, già a una prima lettura, un senso di straniamento. Manca infatti qualsiasi informazione su come il numero di feriti sia stato effettivamente rilevato. Una simile mancanza è piuttosto sorprendente, dal momento che uno degli autori risulta essere esperto, nonché docente, di Metodologia della ricerca sociale. Ora, come insegnano i manuali metodologici, e come testimoniano concretamente numerose ricerche sociali, i dati non sono “dati” ma sono costruiti. Dunque, prima di essere impiegati come base per le argomentazioni, dovrebbero essere accompagnati da informazioni sul percorso logico ed empirico che ha portato alla loro costruzione.
In questo caso, la domanda di metodo che un lettore mediamente attento si pone – e che rimane senza risposta nel testo – è la seguente: cosa si intende per “ferito” e come sono stati effettivamente contati i “feriti”? In assenza di indicazioni specifiche, si può soltanto ipotizzare la logica seguita nel volume, in virtù della quale i feriti sembrerebbero essere: tra le forze di polizia, coloro che hanno dichiarato di aver subito un qualche tipo di lesione; tra i civili, coloro a cui è stato riscontrato un danno fisico durante l’identificazione avvenuta sul luogo dei fatti o che, successivamente, sono stati identificati e refertati in una sede ospedaliera.
Eppure, chiunque abbia la minima esperienza di piazza – nelle vesti di manifestante o in quelle di operatore legale o sanitario[4] – è ben consapevole che la questione è un po’ più complessa di come non appaia leggendo il libro. Al di là di qualunque pregiudizio, positivo o negativo, sulle forze dell’ordine, sembra ragionevole affermare che il numero dei feriti effettivi tra gli operatori della pubblica sicurezza è sovrastimato, seppur magari di poco, dai dati ufficiali. Tanto per fare alcuni esempi banali, nel computo statistico delle persone che hanno subito danni figurano spesso agenti e funzionari che lamentano distorsioni articolari dovute a movimenti repentini, piccole escoriazioni o lievi sintomi di intossicazione provocati dai gas lacrimogeni da loro stessi lanciati (peraltro, con modalità non necessariamente ispirate a criteri rigidamente logici e deontologici). Per contro, manifestanti che presentano gli stessi disturbi – a meno che non siano stati fermati – non compaiono nelle statistiche. Più in generale, il numero dei feriti tra i “civili” è decisamente sottostimato dai dati ufficiali: chi subisce lesioni in occasione di un evento collettivo ma non è trattenuto per l’identificazione né arrestato, allo scopo di evitare ripercussioni giudiziarie (o di incorrere in nuovi “infortuni”), tendenzialmente preferisce non rivolgersi alle strutture ospedaliere o, se costretto a farlo per via dell’entità del danno subito, riporta motivazioni diverse da quelle effettive. Per questa ragione, non compare nei dati ufficiali.
Ma le lacune metodologiche non si limitano alle statistiche sui feriti. Dieci anni di ordine pubblico si fonda infatti su una scelta classificatoria piuttosto discutibile. Le manifestazioni di cui si parla nel testo sono suddivise in sei tipi diversi – “politiche”, “sindacali”, “immigrazione”, “studentesche”, “ambientaliste”, “varie” – e sono distinte dalle manifestazioni “sportive”.
La sussistenza di una differenza effettiva tra gli eventi “politici” e le altre modalità di mobilitazione è tuttavia assai dubbia: in che senso e per quali ragioni manifestazioni, ad esempio, “ambientaliste” organizzate dal movimento No-Tav in nome di un modello di sviluppo più sostenibile e di una democrazia più sostanziale, “sindacali” indette da sigle autonome per la difesa del lavoro e della giustizia sociale, “migratorie” promosse dalla rete No-border allo scopo di denunciare le restrizioni moralmente e politicamente illegittime alla libertà di movimento non sarebbero politiche? Dal momento che determinati movimenti trattano temi centrali per la vita di noi tutti – e non soltanto di quella dei manifestanti – e sollevano questioni relative all’opportunità del fatto che gli enti pubblici impieghino risorse per raggiungere specifici obiettivi a scapito di altri (si pensi alle mobilitazioni in Val di Susa o a quelle sui tagli alla scuola), con quali argomenti se ne nega la politicità?
Dieci anni di ordine pubblico, purtroppo, non si esprime a riguardo. L’assenza di motivazioni rispetto alla scelta classificatoria non sembra però essere casuale né “innocente”. Soprattutto, la negazione dello status di “politico/a” a soggetti e ad azioni non è affatto sorprendente. Come rilevato altrove[5], all’interno del sapere di polizia[6] – costituito dall’insieme delle categorie, delle cognizioni e delle rappresentazioni necessarie a questa istituzione per orientarsi nella società e svolgere i propri compiti – la sistematica “depoliticizzazione” degli attori di movimento è un dispositivo discorsivo fondamentale, strategico nel delegittimare le soggettività sociali meno gradite e nel giustificare un intervento repressivo nei loro confronti. In altre parole, dalla prospettiva della polizia, le folle in piazza, se valutate ed etichettate come non-politiche, sono “legittimamente” considerabili come meritevoli di trattamenti differenziati e più severi.
La presenza di un dispositivo di questo tipo, del resto, è confermata dalla lettura della prima parte del testo. Dopo la prefazione di Alessandro Pansa, Capo della polizia, e un’articolata introduzione di Lorena La Spina, Segretario nazionale dell’Associazione nazionale funzionari di polizia, il volume ha inizio con un capitolo intitolato Ordine pubblico e manifestazioni di piazza, nella cui prima pagina sono contenute affermazioni interessanti: «L’Italia di oggi è un’Italia smarrita, diffidente, alla ricerca di un’identità sociale e culturale. […] nel nostro paese crescono l’incuria, l’abbandono, il disinteresse e domina l’incompiutezza. Questo sentimento ha generato a sua volta una paralizzante situazione di immobilità cui fa da contraltare un profondo senso di attesa. Un’attesa indefinita di un “qualcosa” che ci guidi verso un nuovo ordine di valori e di riferimenti» (p. 29). Secondo gli autori, il disagio sociale crescente nel paese «si esprime nel progressivo allontanamento – quando non vero e proprio distacco – dei cittadini dalle Istituzioni, dalle radici di memorie comuni e dall’infinito patrimonio di ethos civile e nazionale» (ibidem). Accanto a tale allontanamento, si farebbe evidente «un elevato desiderio di auto-espressione rigidamente improntato sulla difesa tout court di diritti nella maggior parte dei casi nobili e condivisibili, ma a volte eccessivi e forieri di disordini culturali e civili. Potremmo parlare di una visione privata sia dell’economia che della società che spinge i cittadini a prendere sempre più le distanze dalle Istituzioni e a mobilitarsi quotidianamente in azioni di protesta» (p. 30). L’incremento nel numero delle manifestazioni di piazza riscontrato nel decennio oggetto del libro, a riguardo, è considerato dagli autori un chiaro segnale della diffusione crescente di tale visione.
Questa tesi – che, nel testo, viene retoricamente corroborata attraverso il richiamo ad autori come Bauman e Giddens – esemplifica il dispositivo discorsivo descritto sopra: negare la natura politica di determinati gruppi e movimenti significa non accordare loro una piena legittimità. Nello specifico, il percorso logico-argomentativo impiegato è grosso modo il seguente: l’aumento della protesta è sintomo di distacco dalle istituzioni e, quindi, di un percorso privato, come tale non pubblico.
Secondo gli autori, insomma, l’agire politico sembra essere realmente politico soltanto se è conforme a ristretti parametri di legalità e se è acritico nei confronti dell’ordine costituito. Il che, oltre a svelare meccanismi discorsivi delegittimanti in quanto depoliticizzanti, rivela anche un inquietante scivolamento da un’idea di ordine pubblico materiale – equivalente all’assenza di aggressioni a beni giuridici quali il diritto di proprietà e di libera circolazione – a un modello di ordine pubblicoideale – coincidente con l’assenza di conflitto tra principi e valori diversi. Dalla lettura di Dieci anni di ordine pubblico sembra infatti trasparire l’immagine della società desiderata dalla polizia di stato: quella di una comunità a-conflittuale e passivamente fedele alle istituzioni, a prescindere dalle scelte che queste compiono.
Tale immagine appare ancora più inquietante se si considera che le idee e le visioni espresse nel volume qui discusso non sono confinate al suo interno: esse costituiscono infatti un patrimonio condiviso da una parte significativa degli apparati di polizia[7] e dei sindacati di settore e trovano diffusione anche in altri ambienti, quali, ad esempio, la magistratura e la stampa mainstream, che spesso le adotta acriticamente nel descrivere mobilitazioni e attori sociali. Le categorie e i discorsi che compaiono in Dieci anni di ordine pubblico, in altre parole, rappresentano in maniera emblematica un sapere di polizia che pervade altre istituzioni, contribuendo a una costruzione “ufficiale” della realtà sociale fortemente viziata da distorsioni interpretative e da pregiudizi strumentali.

Note

[1] Dirigente generale della Polizia di stato e direttore dell’Ufficio ordine pubblico.

[2] Primo Dirigente della Polizia di stato e Capo di gabinetto della Questura di Roma.

[3] Sociologo, docente presso la Link Campus University e consulente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive.

[4] Su questo punto, si rimanda a Edoardo Mangone e Enzo Mangini, La sindrome di Genova. Lacrimogeni e repressione chimica, Fratelli Frilli Editori, 2002 e I Sanitari del Genova Social Forum, Obbligo di referto, Fratelli Frilli Editori, 2001.

[5] Cfr. Enrico Gargiulo, Ordine pubblico, regole private: rappresentazioni della folla e prescrizioni comportamentali nei manuali per i Reparti mobili, «Etnografia e ricerca qualitativa, n. 3, 2015, pp. 481-511.

[6] Per una definizione più completa ed esaustiva di questa categoria si rimanda a Salvatore Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, 2000 e Donatella Della Porta e Herbert Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai «no global», Il Mulino, 2003.

[7] Esempi di impieghi strumentali dei dati sui feriti e di discorsi depoliticizzanti e delegittimanti con riferimento ai manifestanti sono spesso contenuti nei comunicati emanati dalle Questure a seguito di manifestazioni, così come nei manuali – o in altre pubblicazioni specialistiche – per la formazione del personale di polizia.

Fonte: lavoroculturale.org 

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