di Alberto Negri
Erdogan vuole trasferire all’esterno la profonda crisi seguita al golpe e alle epurazioni che ha comunque origine nei fallimenti della sua politica estera e nelle ambizioni spropositate di un leader che sbagliato clamorosamente i calcoli. Provocando e minacciando gli Stati Uniti e l’Europa prepara il terreno a un possibile accordo con Putin nell’incontro previsto il 9 agosto. Erdogan, dopo lo scontro con Mosca nei mesi scorsi, può apparirci un acrobata che corre sul filo ma i suoi alleati occidentali non sono stati meno funambolici.
Certamente è un leader cinico e anche un po’screanzato, che per difendere il figlio Bilal dalle accuse di riciclaggio ha attaccato la magistratura italiana costringendo Renzi a replicare. Crede nell’Islam ma considera la democrazia un taxi dove si paga la corsa e si scende quando non porta alla fermata giusta, cioè al potere. Casomai è stata superficiale Bruxelles a credergli o la cancelliera Merkel: questi sono i danni che provengono dall’incapacità e anche dall’opportunismo degli europei di decifrare il mondo musulmano. Con calcolata e anche giustificata diffidenza sull’altra sponda ci dicono quello che le nostre delicate orecchie amano ascoltare, non la realtà. Ma qui ora si parla di sopravvivenza e ognuno gioca le carte che ha in mano. La Turchia ha perso la guerra di Siria per abbattere Assad, si trova con il rischio di un possibile stato di curdi ai suoi confini, sostenuti dall’aviazione Usa contro l’Isis, le forze armate dopo le epurazioni di centinaia di ufficiali hanno il morale sotto i tacchi: in ogni caso sono svaniti i sogni influenza neo-ottomana per impadronirsi di città come Aleppo in Siria e Mosul in Iraq. Confinando dal 30 settembre 2015 con la Russia di Putin, Erdogan ha capito che per rimediare la sconfitta può aggiungersi ad Assad come carta pesante nel mazzo del Cremlino per fare pressioni su Washington, la Nato e l’Unione europea. Il meeting tra Putin ed Erdogan sarà quello tra due leader che hanno molto da recriminare sull’Occidente.
Dove è fallito il Great Game di Erdogan? Facendo leva sull’avanzata dei jihadisti in stati in disgregazione come Siria e Iraq il leader turco intendeva riscrivere i trattati sui confini seguiti alla dissoluzione dell’Impero. È stato l’unico a negoziare direttamente con i jihadisti dell’Isis ed è quello che manovra anche Al Nusra-Qaeda, appena riciclata, con una mossa sconcertante ispirata da sauditi e americani, dalla parte dell’opposizione “rispettabile”. Ma anche questo non ha rassicurato Erdogan. Per osservare le proporzioni di questa crisi turca basta spostarsi a Teheran. Nel centenario di Sykes-Picot, gli accordi anglo-francesi di spartizione del Medio Oriente nel 1916, ci sono nuovi attori che questa volta diranno la loro, dalla Russia all’Iran sciita, che forse mai avrebbe immaginato, a un anno dell’intesa contrastata sul nucleare, di raccogliere altri dividendi politici dalle superpotenze.
Gli Usa hanno eliminato nel 2001 i talebani sunniti ostili a Teheran, poi l’arcinemico Saddam nel 2003, la Russia ha salvato nel 2015 l’alleato Assad e ora barcolla il legame tra Washington e il più potente alleato della Nato sul fianco dell’Iran. Non stupisce che dopo il fallito golpe gli iraniani siano corsi a congratularsi calorosamente con Erdogan, il loro nemico in Siria. È forte il sospetto che i persiani siano gli unici ad avere ereditato le vere stimmate dell’impero.
Ha puntato alto Erdogan con le sue mire da Sultano: Iraq, Siria, Kurdistan di Barzani, la Palestina di Hamas, l’Egitto di Morsi, la Libia della rivolta anti-Gheddafi. Quante delusioni. E ora, dopo essere stato costretto a rifare la pace con Israele e Russia, è obbligato a un doppio gioco assai pericoloso: stare nella Nato e allo stesso tempo appoggiarsi su Mosca che per altro lo tratta con strumentale diffidenza. Ma Erdogan non è il Maresciallo Tito che abilmente sfruttava da non allineato la sua posizione a cavallo tra Est e Ovest, inoltre la Turchia ha un bel po’ di guai interni tra cui la guerriglia del Pkk e un irredentismo curdo sempre più ribollenti. In questa scomoda posizione di isolamento in cui si dibatte, Erdogan però non si è messo da solo. Cinque anni fa fu l’ex segretario di stato Usa Hillary Clinton, con l’appoggio della Francia, a illuderlo che avrebbe potuto abbattere Assad con i jihadisti. In quel 2011 tra rivolte arabe che vedevano i Fratelli Musulmani di Morsi trionfare e Gheddafi travolto da un brutale epilogo, Erdogan appariva vincente; veniva accolto trionfalmente al Cairo e Tripoli e il suo modello di democrazia musulmana indicato come un prodotto da esportazione. È il 2013 l’anno della crisi del modello Akp-Erdogan. Governi che si sfaldano sotto gli scandali per corruzione che coinvolgono anche la famiglia del leader, la rivolta dei giovani di Piazza Taksim, la crisi della lira messa sotto pressione sui mercati da un boom con la miccia corta e le accuse di Erdogan alla “lobby dei tassi di interesse”. In quella fase esplode la rottura con Fethullah Gulen, in esilio negli Usa, che aveva fornito finanziamenti e quadri all’ascesa dell’Akp. Erdogan capisce che il gioco si è fatto duro: da Washington e Londra possono sfilargli il potere. Ma è nel settembre 2013, quando Washington e Parigi rinunciarono a bombardare il regime di Damasco, che la sua parabola comincia a declinare sull’obiettivo su cui aveva fondato i sogni di rivincita neo-imperiali. E ora sul fianco sud-orientale, dove la Nato ha 24 basi, armi nucleari comprese, è in corso il più pericoloso Great Game degli ultimi decenni: l’Occidente non può rinunciare alla Turchia e allo stesso tempo farebbe a meno di Erdogan. Un compromesso è possibile ma ormai solo tra gente che si detesta.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore
Fonte: pagina Facebook dell'Autore
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