di Aksel Nikaj
L’alternanza scuola lavoro è stata introdotta, in via sperimentale in Italia, dal decreto legislativo 77/ 2005 dell’allora ministra Moratti. Nel 2015 invece il governo Renzi, con l’approvazione della Buona Scuola rende definitivamente obbligatoria l’alternanza con un monte di 400 ore per gli istituti tecnici e professionali e 200 ore per i licei. La necessità dell’alternanza nasce, da parte del governo, dalla convinzione che il mondo della formazione non sia capace di preparare le studentesse e gli studenti alle necessità del mercato del lavoro e che quindi questo disallineamento sia la motivazione per cui gli studenti usciti dai percorsi formativi non riescono a rispondere alle necessità del mondo del lavoro, aumentando conseguentemente la disoccupazione.
Ma i dati Ocse ci dicono proprio il contrario: non c’è una mancanza di competenze e conoscenze, ma è il mondo del lavoro stesso che richiede manodopera a basso costo e di bassa qualità, fenomeno che si è evidenziato con l’emergere in questi ultimi anni di una «bolla formativa», che ha portato tanti giovani altamente qualificati ad abbandonare il Paese. È evidente quindi come l’obiettivo sia piegare i processi formativi alle necessità di una classe imprenditoriale ignorante, incapace di investire sui diritti e l’innovazione di processo e di prodotto. In questo quadro si inserisce la mancanza di investimenti nella ricerca che nel nostro paese si attestano solamente all’1,25% del Pil, ben lontano dall’obiettivo di Europa 2020 che ha come minimo il 3% del Pil, per fare in modo che, al pari del mondo della formazione, anche il mercato del lavoro diventi terreno di progresso sociale.
Se da una parte l’intuizione del coniugare il sapere e il saper fare non è sbagliata di per sé ma, anzi, se praticata nel giusto modo può solo essere un avanzamento sul piano pedagogico, il problema reale è come essa viene concretizzata. Purtroppo, se già prima della Buona Scuola denunciavamo le condizioni di sfruttamento in cui gli studenti erano costretti a fare l’alternanza scuola lavoro, dove spesso l’alternanza non aveva un valore formativo ma anzi, si fermava ad essere manodopera gratuita e sfruttamento vero e proprio, con l’introduzione dell’obligatorietà la situazione si è aggravata. Da una parte i licei si sono dovuti confrontare per la prima volta con quest’esperienza senza essere in grado di costruire un progetto formativo ed educativo, spesso relegando gli studenti nei vari uffici comunali a fare fotocopie o riordinare libri; dall’altra gli istituti tecnici, per completare il monte ore, si sono limitati a trovare la prima azienda disponibile. Infatti l’alternanza ha obbligato i vari istituti ad una corsa sfrenata per chiedere alle aziende di poter collaborare senza porre dei paletti. Un esempio molto chiaro è quello degli studenti che vengono mandati a compiere queste esperienze in aziende che devastano l’ambiente o utilizzano una grande percentuale di lavoratori precari.
Risulta necessario fare in modo che l’alternanza scuola lavoro diventi un’attività realmente formativa. Basterebbe poco per iniziare a cambiare strada, promuovendo commissioni paritetiche all’interno delle scuole per rendere partecipi tutti gli studenti nella definizione degli obiettivi formativi e delle aziende identificate, ripensando la didattica a partire dalle attività laboratoriali, promuovendo a livello nazionale un codice etico da rispettare nel momento della scelta della aziende. Sarebbe necessario, infine, inserire queste e altre forme di tutela del percorso all’interno di un quadro normativo chiaro e non frammentato, partendo da uno statuto degli studenti in alternanza che riesca a dare centralità agli studenti nel processo decisionale, diritti chiari e che preveda fondi per la mobilità studentesca.
Fonte: Il manifesto
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