di Luca Aterini
Come ogni anno, all’aggiornamento del Def segue malinconico il dibattito sulla prossima legge di Bilancio. Il che da molto tempo si traduce ormai in modo pressoché esclusivo con la parola “tasse”, da aggiungere o togliere ai conti nazionali a seconda del caso. L’attuale esecutivo si vanta – con dubbie ragioni – di aver realizzato «la più grande riduzione delle tasse nella storia italiana», ed è determinato a continuare sul medesimo indirizzo.
«Da quando siamo al governo lavoriamo per ridurre le tasse – ha recentemente dichiarato il premier Renzi – Per l’Italia di oggi non conosco una ricetta migliore di abbassare le tasse e continuare con le riforme strutturali». Che la certezza del diritto (e del dovere) si mantengano una chimera, e che al contempo il Paese sperimenti ancora un vertiginoso aumento delle disuguaglianze poco sembra importare. La soluzione proposta alla crisi rimane quella di abbassare le tasse.
Sarebbe fruttuoso allora dare un’occhiata a un parte oscura e snobbata della nostra architettura fiscale, quella delle tasse ambientali. Ad aggiornare il quadro c’ha pensato l’Agenzia europea per l’ambiente, pubblicando lo studio Environmental taxation and EU environmental policies.
L’analisi evidenza come in fatto di tasse ambientali i vari stati europei presentino un quadro assai variegato. Su questo fronte le entrate fiscali spaziano dal 4,08% del Pil danese al dato neanche dichiarato della Svizzera, con una media Ue28 pari al 2,46% del Pil (anno 2014). L’Italia si colloca al di sopra di tale valore, con tasse ambientali che fruttano il 3,6% del Pil (a fronte del 3,46% del 1995).
Questo purtroppo non ci inserisce automaticamente tra i Paesi virtuosi, dato che l’Eea enumera tra le tasse ambientali quelle sui carburanti o sulla circolazione, come il bollo auto. Sono queste che fanno la differenza, soprattutto nel caso italiano. Nel corso di decenni alle accise su benzina e gasolio si sono sommati importi che poco hanno a che fare con un uso più efficiente delle risorse naturali, dalla guerra in Abissinia alla missione in Bosnia fino alle dolorose ricostruzioni post-sisma; secondo la Cgia di Mestre dal 1970 al 2015 gli italiani hanno pagato per questa voce tramite le accise 261 miliardi di euro, il doppio rispetto ai costi effettivamente sostenuti a causa dei danni da terremoto.
Sfrondando l’analisi da queste considerazioni, un esperto del settore come l’economista Massimiliano Mazzanti ha già avuto modo di spiegare su queste pagine come la tassazione ambientale sia a livelli praticamente nulli in Italia. Il problema delle tasse ambientali è semmai l’opposto di quanto proposto dalla vulgata comune: sono troppo basse.
Introdurne di migliori sarebbe un’operazione a costo zero per le tasche dei cittadini (maggiori tasse ambientali potrebbero agevolmente tradursi in minori tasse sul lavoro, per uguali importi), ma preziosissima per indirizzare lo sviluppo del Paese: ciò che una volta si sarebbe chiamato “politica industriale”.
Per la legge di Bilancio 2017 si ipotizza una manovra dall’importo di circa 25 miliardi di euro (oltre 15 dei quali assorbiti dall’Iva). Ebbene, secondo stime diffuse dalla stessa Eae (dal 2011!) tramite l’introduzione di basilari tasse ambientali e la rimozione di sussidi impropri si potrebbe raggranellare in Italia la stessa cifra, favorendo al contempo lo sviluppo sostenibile. Come se non bastasse, nel suo ultimo studio l’Eea mette in evidenza un problema non da poco: l’Europa è un continente che invecchia – e l’Italia ancora di più –, dove l’offerta di lavoro (considerando la fascia d’età 20-64 anni) diminuirà del 3% al 2050. Col passare degli anni, le tasse sul lavoro diventeranno sempre più gravose: meglio dunque passare a quelle ambientali. Vero è che queste a loro volta tendono a erodere la base imponibile – se la benzina costa molto, vado meno in macchina –, portando però benefici ambientali. Molti sarebbero gli spunti per un serio dibattito politico sul tema, ma la politica non pare averne molta voglia. Quanti lo propongono, come il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, rimangono puntualmente inascoltati.
Nessuna speranza dunque? L’Eea ce ne concede qualcuna, fuori confine. Ad esempio, l’Italia non ha una carbon tax. La Svezia sì. Dopo l’introduzione della tassa, il Pil del Paese scandinavo è cresciuto del 58% tra il 1990 e il 2013 – spiegano dall’Eea, ed è cresciuto del 4,1% nel 2015 aggiungiamo noi –, diminuendo al contempo del 23% l’emissione di gas serra. Magari potrà essere d’ispirazione.
Fonte: Green Report
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