di Alfonso Gianni
Malgrado la sua mole, la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Nadef) licenziato dal governo martedì notte, non riesce a nascondere le fragilità e le aporie della Renzinomics. Non scalda i cuori né a Bruxelles né a Roma. Negli ambienti Ue si pensa di rimandare il giudizio definitivo al prossimo maggio in modo da non intralciare il cammino del governo verso il Referendum, fissato a dicembre anche per la legge di stabilità. In questo modo il governo potrebbe tentare di reperire quegli otto miliardi che gli permetterebbero di agire sulle pensioni, sulla “competitività”, sui contratti, sulle misure per la famiglia e per l’Università. Uno spruzzo di qui e uno di là per rinsaldare il fronte referendario del Sì che si sta già sfaldando, come impietosamente hanno evidenziato i fischi dell’assemblea di Firenze della Coldiretti. Naturalmente il taglio dell’Irpef è rimandato al 2018 (si fa per dire) per garantire quello dell’Ires che interessa alle imprese e per scongiurare l’incremento dell’Iva. Il debito italiano torna a crescere, siamo al 132,8% del Pil per colpa della deflazione appena attutita dalla ripresa dei prezzi del petrolio. La Commissione europea aveva già tollerato il rapporto deficit-Pil dall’1,8% al 2%. Ma questo a Renzi non basta. Vuole arrivare al 2,4% per potersi fregiare del titolo di combattente antiausterity.
Ma i conti non tornano. Lo afferma l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), che appone il bollino sulle previsioni tendenziali 2016-2017, ma esprime forti perplessità su quelle programmatiche e revoca in dubbio le stime governative per i due anni successivi. Non crede affatto che la crescita degli investimenti possa raddoppiarsi, sia nel settore delle costruzioni come in quello dei macchinari. Pensa che le stime governative sull’andamento del Pil nominale nel 2018 e nel 2019 siano del tutto gonfiate. «La crescita supposta dal Mef per i consumi delle famiglie appare, soprattutto per il 2018, elevata se si tiene conto dell’andamento complessivamente stagnante della massa retributiva reale», scrive l’Upb, ovvero i salari sono troppo bassi e inibiscono qualunque tipo di crescita. Non solo, l’Ufficio avverte che il commercio internazionale e la domanda mondiale sono in contrazione. Quindi le previsioni governative sono costruite sulla sabbia.
Intanto i dati veri e duri dell’economia si fanno sentire. L’Istat ritorna avverte che la fascia tra 25 e 49 anni ha perso in un mese 39mila occupati e 238mila in un anno. Anche la generazione nata nel 1980 («la più istruita di sempre» secondo Mario Draghi) è perduta e costretta a lavorare fino a 75 anni per uno straccio di pensione. Effetti del Flop Act e di ciò che lo ha preceduto.
La battaglia dei decimali è doppiamente perdente, fondata su stime improbabili e insiste su obiettivi scopertamente fallimentari. Come fare credere che i livelli salariali debbono rincorrere come Achille la tartaruga la produttività aziendale – che peraltro deriva da fattori di sistema che reclamano investimenti pubblici e innovazione -, quando invece proprio l’incremento delle retribuzioni può diventare un fattore potente di sviluppo della produttività del lavoro. E anticipare l’età pensionabile costringendo le persone a indebitarsi con le banche e a vedersi ridotta fino al 25% la propria pensione non elimina le sofferenze e aumenta l’indebitamento privato . Un perseverare tanto più diabolico se lo si confronta con la crisi del pensiero economico mainstream. La recente intervista di De Benedetti apre una voragine in quel mondo dominato dalla «folle scelta dell’austerity» per di più in piena deflazione, anche se poi non offre soluzioni alternative. Non è suo compito. Sarebbe quello di una sinistra da costruire.
Fonte: Il manifesto
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