di Christian Salmon
Jorge Luis Borges evoca, in uno dei suoi testi più famosi e divertenti, una certa enciclopedia cinese secondo cui gli animali si dividono in: «a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani randagi, h) inclusi nella presente classificazione, i) che s’agitano come pazzi, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, l) eccetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche»… Ho ripensato a questo testo del grande scrittore argentino osservando il moltiplicarsi dei candidati alle primarie che designeranno i rappresentanti dei partiti per le presidenziali del 2017. Ma siamo onesti, non è una specialità francese.
Il processo delle primarie favorisce la moltiplicazione delle candidature in seno a uno stesso partito, e talvolta perfino in seno a una stessa tendenza. Per dare conto di una simile proliferazione di candidature analoghe e cercare di distinguere fra postulanti così simili gli uni agli altri, i media fanno ricorso a metafore ispirate agli universi e ai riti del combattimento o del cimento: dalla corsa a ostacoli (ciclistica o ippica) alla competizione sportiva, al conflitto di archetipi (la forza di Achille, l’astuzia di Ulisse), allo spettacolo, alla serie tv ( House of Cards, Il trono di spade), o ancora al cronotopo della marcia con le sue figure associate (la traversata del deserto, l’ascensione ai vertici, lo stallo, la deriva, la caduta).
L’uso della metafora nel discorso politico non è certo nuovo, ma tende a rafforzarsi quando gli obiettivi politici o ideologici si fanno meno marcati e il personale politico, per forza di cose, diventa più omogeneo. Quando più nulla differenzia un candidato dall’altro sul piano ideologico o politico, bisogna trovare altre maniere per distinguerli, fuori dall’ambito della razionalità politica, in universi narrativi e registri linguistici diversi dalla sintassi politica.
Nell’accavallarsi delle candidature, l’elemento che fa la differenza è la freschezza del segno: lo scintillio di un tweet, di un’immagine o di un semplice accessorio. Matteo Renzi ha saputo sfruttare con abilità questa miniaturizzazione dei grandi obiettivi politici (#lavoltabuona, la camicia bianca e uno smartphone Apple, strizzata d’occhio alla serie House of Cards). La miniaturizzazione agisce come un transistor, il conduttore elettronico utilizzato nei circuiti come interruttore, come amplificatore di segnale, che consente di stabilizzare una tensione, modulare un segnale e tante altre cose.
Propongo di definire questo fenomeno della comunicazione «transistorizzazione » (per cambiare dal pigro storytelling), nel doppio significato di effetto transistor e di trasmutazione storica dei dati della politica. Lo sfavillio dell’eteroclita prende il posto del dissenso democratico. L’esibizione delle piccole differenze (e del narcisismo che le accompagna) si sostituisce alle spaccature politiche e alle battaglie ideologiche.
Il prezzo di questo spostamento è la personalizzazione della lotta politica che aggrava inesorabilmente la spoliticizzazione delle persone, che ci si sforza di compensare attraverso piattaforme digitali di ogni sorta seguite da operazioni porta a porta mirate (il clic e il toc toc). Ma a queste campagne partecipative manca l’essenziale, l’assicurazione di un linguaggio credibile e di un luogo comune dove scambiarlo, accreditarlo. Ed è qui che il testo di Borges, forse, ci dice qualcosa sulla crisi politica che attraversiamo.
Fino a questo momento la vita politica, che si tratti di processi elettorali, dell’organizzazione del dibattito pubblico, della pluralità dei partiti o dell’esercizio del potere, obbediva a una logica di negoziazione. Il campo politico era attraversato da conflitti di interesse che esprimevano, in ultima analisi, gli interessi conflittuali dei dipendenti e dei datori di lavoro. Negoziazione, partiti, rapporti di forza erano i tre concetti fondamentali della ragione politica.
La condizione politica è stata rimodellata negli ultimi trent’anni sotto l’effetto di quattro rivoluzioni intrecciate fra loro, che hanno segnato le società occidentali: 1. la globalizzazione neoliberista che ha trasformato il capitalismo e messo in crisi la sovranità degli Stati; 2. la rivoluzione digitale, la tv via cavo e lo sviluppo di internet, che hanno scompigliato le condizioni sociali e tecniche della comunicazione politica; 3. la rivoluzione manageriale che si è imposta sia negli apparati dello Stato sia nei partiti politici e ha promosso un nuovo modello di uomo politico, più performer che giurista; 4. una rivoluzione della soggettività che si traduce, nella sottocultura di massa, nell’apparizione di un nuovo idealtipo che privilegia i valori di mobilità e flessibilità a quelli di lealtà e radicamento.
Oggi la logica della negoziazione cede il posto a una logica di speculazione e poggia sull’anticipazione di una performance futura. Alla creazione di un rapporto di forza si sostituisce la logica dell’anticipazione. Governare non è più semplicemente prevedere, è speculare sul futuro immediato. E in questa logica non sono più i sindacati o i partiti rappresentativi che intervengono nell’ambito politico, ma attori che cercano di valorizzarsi o di bloccare la loro svalutazione.
Il modello è la start-up politica (come quella di Emmanuel Macron o di Donald Trump) e non più i partiti old school (come il Pd di Matteo Renzi o il Partito socialista di Manuel Valls). L’atomizzazione dello spettro politico evocata all’inizio di questo articolo ne è uno degli effetti. Per l’elettore-scommettitore, non si tratta più di decidere fra partiti, programmi o visioni del mondo, ma di scommettere sul futuro vincente. Il sondaggio si sostituisce all’elezione, il sondato all’elettore. La competenza o l’esperienza cedono il passo all’«indice di futuro» dei candidati. Le primarie hanno aggravato questa logica.
Sono gli stress test del capitale umano. Anch’esse sono basate su previsioni, scommesse, e non sulle qualità presunte o accertate di un candidato. L’homo politicus considerato alla stregua di un qualunque «capitale umano » è un valore in divenire che si apprezza prelazionando un’offerta politica invece che sforzandosi di rispondere alle domande dei cittadini. Una politica dell’offerta politica di cui i sondaggi sono lo strumento centrale: stanno alla democrazia come le agenzie di rating stanno al debito.
Valutano la credibilità dei candidati sul mercato delle opinioni allo stesso modo in cui le agenzie di rating valutano la solvibilità dei mutuatari sui mercati finanziari. Oltre a questo, gli uni e le altre hanno per missione orchestrare, stimolare, influenzare l’attenzione dell’opinione pubblica cittadini e produrre fede nel sistema. Lanciatori di narrazioni, i sondaggi hanno la funzione di mantenere l’attenzione, di scongiurare la fuga o l’astensione. Se li seguiamo, non è in virtù del loro valore informativo o predittivo, ma in virtù della loro funzione drammaturgica(…).
Oggi la perdita di credibilità nelle istituzioni politiche e nella parola pubblica non è un fenomeno congiunturale, è un sintomo della crisi di rappresentanza che colpisce se stessa, legata alla crisi dei vecchi modelli di sovranità statale. Tutto il processo elettorale ormai è visto con grande scetticismo dagli elettori: primarie, sondaggi, comizi, talk show. L’elezione, che prima accreditava l’esercizio del potere e la sua legittimità, è divenuta una sorta di diffidenza, un esercizio non più istituente, ma destituente.
Per dirla sinteticamente, tutta la piramide del potere si sta sgretolando sotto i nostri occhi. Non è dunque una «deriva» mediatica che dobbiamo denunciare, è una linea di frattura politica: è la scena stessa del politico che si dissigilla e trema sotto i nostri passi. Perdita del luogo e delle forme stesse del politico. Ecco la triste sorte di coloro che hanno perduto il «comune» e non hanno più il linguaggio.
Fonte: La Repubblica
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