di Gian Paolo Calchi Novati
Piuttosto che esaltare la “bellezza” della Costituzione italiana del 1948 sarebbe ed è più pertinente – soprattutto se si argomenta sulle sue modifiche – mettere in evidenza la sua coerenza. Anche la consueta distinzione fra prima e seconda parte, dicendo o sottintendendo, non si sa con quali certezze e con quanta proprietà, che i principi fondamentali e i diritti e doveri dei cittadini compresi nella prima parte sono comunque intoccabili, non rende giustizia a un testo in cui i singoli passaggi sono intrinsecamente ed estesamente collegati fra di loro fino a formare un corpus organico e omogeneo.
L’art. 138 sulle leggi di revisione è una prova della rigidità della Costituzione, mentre l’art. 139 fa della «forma repubblicana» un postulato immutabile.
L’art. 138 sulle leggi di revisione è una prova della rigidità della Costituzione, mentre l’art. 139 fa della «forma repubblicana» un postulato immutabile.
Il merito principale della nostra Costituzione è proprio il collegamento molto stretto fra i valori e gli istituti della rappresentanza e del governo. Il pericolo della riforma malamente approvata dal parlamento, su cui è chiamato a pronunciarsi il popolo, è che la manomissione della seconda parte preluda a uno sconvolgimento di ciò che viene prima. E infatti i detrattori della Costituzione non dicono che è «brutta» ma che è «vecchia» o «invecchiata». Si lascia intendere che i suoi principi rispecchiano un momento della nostra storia superato, che non esiste più. È come se nei fatti non si discutesse di Senato o di Province ma di Resistenza e prima ancora di Repubblica nel significato che va oltre la forma dello Stato per intendere un modo di convivenza della collettività che rimanda alla Grecia, a Roma o, per venire a tempi più vicini, al senso che ha la repubblica in Francia o negli Stati Uniti. Il ricatto implicito è di accusare di “passatismo” ogni richiamo al clima del 1946-47, come sarebbe in fondo logico per chi colloca la Costituzione non nell’indefinito di una qualsiasi vicenda istituzionale bensì in una precisa temperie politica e morale che si dovrebbe se mai rivalutare come bussola per uscire dalla “decadenza” che ci affligge sotto molti aspetti.
Il campo del sì ha la presunzione di essere “moderno” e si fa forte di un preteso aggiornamento, dimenticando che la Costituzione è già stata oggetto di modifiche – adottate secondo le disposizioni legislative in materia o imposte in via di fatto – che, ben lungi dal migliorare le pratiche politiche e amministrative, sono risultate quasi sempre negative e difficili da conciliare con il contesto complessivo. È il caso del famigerato emendamento sull’obbligo di parità del bilancio dello Stato. La riforma dell’assetto regionale come disciplinato nel Titolo V si è rivelata tanto posticcia e deludente da richiedere sostanziose modifiche a breve distanza di tempo, con lo stesso progetto ora sottoposto a referendum, sollevando tuttavia altri dubbi e giustificando molte riserve. Il diritto al lavoro (art. 1) è contraddetto ampiamente nella disciplina legislativa corrente e nella stessa fisionomia della società “post-fordista”. Le alleanze che ci portiamo dietro dalla competizione bipolare e dalla guerra fredda hanno giustificato e giustificano di continuo gli sfregi all’art. 11, che con parole nitide e univoche ripudia la guerra sia «come offesa alla libertà degli altri popoli» sia «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Se non bastasse il merito delle singole (disparate e confuse) modifiche della Costituzione su cui ci si deve pronunciare, ci sono anche le ombre di questa deriva che grava sugli equilibri e la coesione della comunità dei cittadini a convincere tutti i “repubblicani” a votare no.
Fonte: Il Ponte
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