di Marco Rovelli
Che la scuola italiana si stia impregnando di cultura della valutazione lo si può capire anche da episodi tutto sommato marginali, e per questo quanto mai significativi. Il centro, del resto, lo si osserva sempre meglio dai margini, in quelle scorie che sono il precipitato di rilevanti mutazioni in atto. Un mio amico insegnante è stato neoimmesso in ruolo, con conseguente anno di prova (che da sempre si fa il primo anno dell’immissione in ruolo). E da sempre è sostanzialmente una pura formalità: non lo si fa superare a chi ha evidentissime inabilità all’insegnamento e alle relazioni umane (che so, qualcuno che abbia picchiato un ragazzo, o vada a scuola sempre ubriaco).
Da quest’anno, la cosa ha assunto una parvenza diversa. Improvvisati membri del comitato di valutazione si ergono a esaminatori sulla base di criteri adottati in modo impressionistico e idiosincraticamente. Così a questo amico, con molti anni di insegnamento alle spalle e accertate competenze, è capitato che una sua collega, incontrata solo al collegio docenti, sulla base di non si sa quale criterio, si sia pronunciata per il non superamento dell’anno di prova. L’anno di prova è stato superato, ma è un episodio significativo: in altri tempi non si sarebbe nemmeno immaginata di poterlo fare. Sono gli «effetti di potere», o meglio di «micropotere», che l’ideologia pervasiva della valutazione produce.
Da quest’anno, la cosa ha assunto una parvenza diversa. Improvvisati membri del comitato di valutazione si ergono a esaminatori sulla base di criteri adottati in modo impressionistico e idiosincraticamente. Così a questo amico, con molti anni di insegnamento alle spalle e accertate competenze, è capitato che una sua collega, incontrata solo al collegio docenti, sulla base di non si sa quale criterio, si sia pronunciata per il non superamento dell’anno di prova. L’anno di prova è stato superato, ma è un episodio significativo: in altri tempi non si sarebbe nemmeno immaginata di poterlo fare. Sono gli «effetti di potere», o meglio di «micropotere», che l’ideologia pervasiva della valutazione produce.
In un ambiente scolastico già di suo poco cooperativo, l’accetta della valutazione dei docenti viene a moltiplicare l’effetto di disgregazione e di competizione tra i docenti stessi. Quel «bonus annuale delle eccellenze» che consacra la forma di vita dei docenti all’ideale «meritocratico», così funzionale all’aziendalizzazione e gerarchizzazione della scuola e della società. Si fa presto a dire eccellenze, una di quelle parole ricorrenti nella neolingua dell’ideologia della valutazione.
Quali sono i criteri? Per quali fini? Su questo già molto è stato detto, a cominciare dal saggio Valutare e punire di Valeria Pinto, che ha messo in chiaro assai bene come questa ideologia funzioni, mediante quali dispositivi. E i dispositivi saranno merce di scambio in un contesto dove non sarà più il rapporto docente-allievo e la buona didattica a pesare, ma la prestazione al servizio della scuola-azienda diretta dal preside-manager (che viene spacciato come preside-sindaco, ma è a tutti gli effetti un preside-prefetto): già oggi nelle scuole è facile accorgersi dei vari «cerchi magici» della dirigenza, figuriamoci un domani con questo ulteriore strumento di pressione e di accentramento.
Il punto è che i comitati di valutazione saranno composti da persone interne alla scuola che non hanno le possibilità di entrare nel merito della bontà del lavoro didattico svolto dal docente. E in questo il rischio primario sono i favoritismi, i clientelarismi, le affinità: parlando con molti colleghi di diverse scuole, ho potuto verificare come questo clima di competitività si sia già acuito. Fatto che contrasta con la necessità di costruire comunità scolastiche basate sul lavoro collaborativo e di equipe: che poi è ciò che rende una scuola veramente «di qualità». Per disinnescare il rischio clientelare, in molte scuole si è proceduto a individuare criteri valutativi il più possibile «oggettivi»: i docenti dovranno produrre una mole di documentazione per avere il bonus, venendo così valutati su fattori magari importanti, come la precisione nel tenere e nell’aggiornare il registro, la qualità formale dei documenti di programmazione e nelle relazioni, ma che non hanno a che fare direttamente con l’insegnamento, ma ne sono, se mai, una narrazione più o meno riuscita, più o meno camuffata. Oppure, si valuterà che accetterà incarichi, chi svilupperà progetti, chi si occuperà dell’alternanza scuola-lavoro, eccetera: insomma, i soldi vanno a chi lavora di più, sono loro le «eccellenze». Ma quando un professore si limiterà a trasmettere la passione della sua disciplina, a stimolare i ragazzi a una crescita individuale, a trattarli come «persone» e non come un fascio di competenze? In tal caso, mancando i riscontri «oggettivi», quel professore non sarà giudicato un’eccellenza e non avrà il bonus. È con ogni evidenza un’impasse da cui non si esce.
Io credo che la classe docente abbia, al momento, un’unica soluzione: rinunciare al bonus, e devolverlo alla scuola, per migliorare le sue strutture e finanziare progetti. Così si disinnesca la bomba della competitività, aiutando a ricostruire una qualche forma di comunità scolastica.
Fonte: Il manifesto
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