di Giuseppe Campesi, Nick Dines e Enrica Rigo
Il giorno in cui la stampa italiana ha sollecitato l’attenzione dell’opinione pubblica sulle condizioni di vita all’interno del Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) diFoggia Borgo Mezzanone, ricercatori, operatori e attivisti che da anni si occupano delle politiche di accoglienza in Italia hanno sperato di assistere a un dibattito finalmente costruttivo sull’argomento, che approfondisse le ragioni dei ripetuti fallimenti delle politiche di accoglienza senza indugiare nei cliché che troppo spesso attraversano la discussione pubblica. Si sbagliavano: anche l’ultima inchiesta di Fabrizio Gatti su «l’Espresso» inciampa in schemi retorici dagli effetti perversi.
Il primo schema retorico attorno al quale viene costruita l’inchiesta è quello della cooperativa che garantisce condizioni di accoglienza pessime pur ricevendo una ricca commessa a spese del contribuente. L’argomento – che strizza l’occhio alla vicenda di «mafia capitale» dato che la cooperativa che gestisce il Cara di Foggia appartiene alla galassia delle cooperative «bianche» coinvolte nell’inchiesta romana – emerge più volte laddove l’inchiesta indugia sulle pessime condizioni materiali di accoglienza. Un simile inquadramento produce un grave effetto distorsivo, poiché finisce per imputare le condizioni di accoglienza a una «devianza» del sistema, mentre la situazione è frutto di precise scelte politiche effettuate tanto a livello nazionale che locale.
Il Cara è sovraffollato perché il sistema di accoglienza italiano è in crisi cronica: soprattutto, non riesce a liberarsi dalle strutture di grandi dimensioni, riproducendo una logica «concentrazionaria» che punta a confinare molte persone in luoghi situati ai margini dei territori e delle comunità di riferimento.
Come dimostrato da numerose ricerche, le strutture di accoglienza di grandi dimensioni presentano problemi di gestione enormi, oltre ad alimentare negli ospiti dipendenza dagli agenti umanitari. Ciò nonostante tali strutture continuano a essere utilizzate non solo perché consentono di fare economia di scala, ma anche e soprattutto perché producono un effetto di confinamento che mantiene a disposizione delle autorità amministrative persone che si vuole evitare si disperdano sul territorio. L’accoglienza umanitaria è così mescolata con il controllo poliziesco, in strutture dalla natura complessa e ambigua.
Nel disegno del sistema di accoglienza italiano, un caso estremo è proprio il Cara di Foggia, che negli anni è diventato un ibrido tra un centro di accoglienza e un insediamento informale. Tale trasformazione non è però stata il frutto di circostanze imprevedibili, quanto di una precisa scelta delle autorità locali, che hanno deciso di non smantellare i container sulla vecchia pista dell’aeroporto (garantendo l’acqua corrente e, dunque, un minimo di abitabilità), adottando un modello di gestione del centro di accoglienza che garantisse una certa porosità dei suoi confini, dato che non vengono effettuati controlli in ingresso e in uscita dalla struttura. Si è lasciato in sostanza che il Cara assumesse i tratti di un insediamento informale perché ciò consentiva di dare sfogo alle esigenze abitative dei migranti e richiedenti asilo che attraversano il territorio senza sovraccaricare l’area urbana di Foggia.
Il secondo schema retorico finisce per criminalizzare le economie informali. La descrizione della vita quotidiana del centro offre il quadro di un luogo in cui sono fiorite una serie di attività di servizio che creano un’economia parallela che in parte assorbe in maniera parassitaria le risorse offerte dalla gestione del centro (vestiario, materassi, pasti), in parte si alimenta all’esterno («sopravvitto», alcolici, servizi alla persona di varia natura). Il fatto che all’interno dei campi «umanitari» che accolgono numerose persone per lunghi periodi di tempo e in condizioni di sostanziale isolamento fiorisca un’economia parallela è una circostanza ben nota agli studiosi e agli operatori che hanno esperienza delle enormi strutture di accoglienza presenti nei Sud del mondo. Non dovrebbe dunque stupire che fenomeni analoghi si riproducano anche nei grandi centri di accoglienza italiani. Il racconto di Gatti inquadra tuttavia la questione sotto una luce del tutto diversa, istituendo una stretta associazione tra economia informale ed economia criminale. Al lettore viene suggerito che ogni attività economica auto-organizzata sia in fondo «controllata» da qualcuno, di solito identificato in base al gruppo etnico, ed alla fine si ha l’impressione che il centro sia infestato da potenti mafie nigeriane, afgane ecc., che gestiscono ogni aspetto della vita all’interno.
Uno schema retorico analogo è all’opera anche quando si tratta di raccontare del contributo che gli ospiti del centro offrono all’economia della zona. Se l’inchiesta ha il merito di aver portato all’attenzione dell’opinione pubblica il fatto che molte delle persone che abitano il Cara di Foggia lavorano come braccianti nelle campagne circostanti, ciò viene fatto inquadrando la questione a partire da schemi che ribaltano completamente la gerarchia dei comportamenti immorali. Non c’è cenno nell’inchiesta alla filiera del pomodoro, alle industrie di trasformazione (solo poche settimane fa una protesta di quegli stessi lavoratori ha bloccato per ore due conservifici della zona, tra i più grandi d’Europa), o ai profitti della grande distribuzione cresciuti a spese della contrazione del costo del lavoro. Né del fatto che in Italia gli ingressi per lavoro sono di fatto bloccati dal 2011, mentre una quota sempre maggiore di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale viene impiegata come manodopera a basso costo in settori quali l’agricoltura e la logistica. Al contrario, si indugia nella descrizione degli «schiavi in bicicletta» che si affidano ai «caporali», rigorosamente nigeriani, e ai «capibianchi» italiani, ancora una volta spostando l’attenzione dalla radice economico-politica del problema, ai suoi epifenomeni «devianti».
Occorrerebbe interrogarsi sugli effetti perversi di una simile rappresentazione delle economie informali che proliferano dentro e attorno ai centri di accoglienza italiani: insistere eccessivamente sullo schema retorico delle «mafie etniche» rischia di produrre un potente effetto di «militarizzazione» dell’accoglienza.
Come accennato, l’inchiesta è piena di riferimenti alla pervasiva presenza di organizzazioni criminali che controllano ogni aspetto della vita del centro. A tratti si allude anche alla presenza di una moschea, nell’area dell’insediamento informale sito sulla vecchia pista dell’aeroporto «controllata» dagli afgani.
Tale allusione richiama immediatamente un altro tema classico del dibattito corrente sulle migrazioni, quello della sua relazione con il terrorismo. Il lettore viene così indotto a immaginare che dietro all’apparente esigenza di praticare il proprio culto si nasconda un focolaio di radicalizzazione fuori controllo. La moschea è descritta come «equivoca». D’altro canto, solo qualche settimana prima lo stesso Gatti aveva firmato un’inchiesta su un altro insediamento informale in Puglia, il cosiddetto «Grand Ghetto» di Rignano Garganico, dai toni (neppure troppo velatamente) islamofobici. L’articolo, oltre a rappresentare l’insediamento come sede di ogni sorta di eccessi, riportava infatti di una presunta persecuzione dei cristiani presenti nel ghetto. Tutti quei «fatti», come la distruzione intenzionale della baracca utilizzata come cappella, sono stati successivamente smentiti dai volontari Caritas, che da anni operano quotidianamente nel ghetto.
Anche l’inchiesta sul Cara di Foggia si sforza di rappresentare il senso di insicurezza che pervade la vita nel centro, imputandola in larga parte all’assenza di controlli sui movimenti dall’esterno e all’interno della struttura. Pur convinti che tale atteggiamento sia sorretto da benevole preoccupazioni per l’incolumità dei richiedenti asilo ospitati nel centro, quando si maneggiano argomenti come la sicurezza occorrerebbe una qualche cautela, oltre che il riferimento a fatti circostanziati che dovrebbe contraddistinguere il buon giornalismo d’inchiesta. Sebbene l’articolo si guardi bene dal suggerire vie d’uscita, non è difficile immaginare come la soluzione che si perseguirà sarà quella di una crescente militarizzazione dell’accoglienza, accompagnata magari dall’abbattimento degli insediamenti informali cresciuti al suo esterno. Bisognerebbe tuttavia essere coscienti dei costi umani che ciò comporterebbe, perché gestire l’ordine pubblico in una struttura di accoglienza così estesa all’interno della quale devono essere tenute in cattività forzata oltre 1.000 persone è una impresa che necessita del dispiegamento di una capacità coercitiva (in termini di mezzi e uomini) che ha paragoni forse solo con la gestione dell’ordine pubblico negli stadi o durante le grandi manifestazioni.
Il ministero dell’Interno pare finalmente essersi deciso a «riflettere» sulla situazione. Vedremo se questa sarà l’occasione per una valutazione complessiva sulla sostenibilità politica e sociale di un sistema d’accoglienza imperniato su centri come quello di Foggia, o piuttosto tale riflessione si ridurrà alla ricerca di un capro espiatorio «giudiziario» da gettare in pasto all’opinione pubblica, o si tradurrà nei consueti propositi di «bonifica» dei ghetti, senza la previsione di reali alternative.
Eppure, da tempo, alternative vengono proposte: i modelli di accoglienza diffusa in luogo della logica concentrazionaria dei Cara, ad esempio; o ancora lo sviluppo di politiche abitative per i braccianti in luogo dei centri gestiti dalla Croce Rossa pensati sul modello di campi profughi (come quelli allestiti in Basilicata). Dalle istituzioni, qualcuno vorrà ragionarci?
Fonte: Rivista Il Mulino
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