di Max Mauro
La partecipazione di una squadra di rifugiati alle Olimpiadi di Rio ha catturato l’attenzione dei mezzi di informazione di buona parte dell’Occidente. Più d’uno, senza troppa fantasia, l’ha definita «una grande storia Olimpica». Tutto ciò è comprensibile se si tiene a mente che tra principi del movimento olimpico vi è quello di «contribuire alla costruzione di un mondo migliore e più pacifico educando la gioventù per mezzo dello sport, praticato senza discriminazioni di alcun genere» (articolo 6 della Carta Olimpica). Nel sogno delle Olimpiadi, lo sport viene inteso come massima espressione degli ideali universali di uguaglianza e inclusione sociale.
Nel presentare l’iniziativa, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Thomas Bach, aveva sottolineato l’ambizione che il Team Rifugiati potesse rendere il mondo più consapevole della crisi dei rifugiati.
Nel presentare l’iniziativa, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Thomas Bach, aveva sottolineato l’ambizione che il Team Rifugiati potesse rendere il mondo più consapevole della crisi dei rifugiati.
Le poche voci critiche hanno puntato l’attenzione sulla visibile contraddizione di una comunità internazionale che, particolarmente in Europa, nega i diritti all’accoglienza dei rifugiati costruendo muri, attaccando navi disarmate cariche di disperati e organizzando rimpatri coattivi di minori non accompagnati, mentre invita alcuni “fortunati” a partecipare al più spettacolare festival dello sport.
I rappresentanti dello sport mondiale potrebbero facilmente difendersi da questo tipo di critica adducendo che lo sport non può risolvere i problemi della politica internazionale. Al massimo, come in questo caso, può offrire un palco da cui lanciare un messaggio. Quante volte si è sentito dire che lo sport è solo sport e non deve mescolarsi alla politica? Suona semplice, quasi ovvio, anche se ormai nessuno può negare le ingombranti implicazioni politiche, diplomatiche e finanziarie dei mega eventi sportivi. Gli esempi di Pechino 2008, Sochi 2014, di Rio 2016, senza dimenticare ovviamente la Coppa del Mondo di calcio del 2014, sono difficili da digerire per i sostenitori dello «sport per lo sport».
Altro che egualitario e inclusivo
Proviamo tuttavia a spostare l’attenzione proprio su questo terreno. Lo sport è veramente inclusivo ed egualitario come il presidente del Comitato olimpico internazionale vorrebbe farci credere? Purtroppo, la realtà sembra affermare il contrario. Nel corso della loro storia, gli sport moderni hanno sviluppato regole sempre più dettagliate per definire i limiti di partecipazione e accesso alla pratica sportiva. Queste regole riflettono il disegno organizzativo dello sport moderno, fondato sullo stato-nazione. Pochi rammentano che la prima edizione delle moderne Olimpiadi, che si svolsero ad Atene nel 1896, era una competizione tra atleti individuali, non tra “nazioni”.
Non fu così a lungo, perché gli stati, in primis quelli fascista e nazista, e più tardi quelli del blocco sovietico, capirono l’importanza del successo sportivo per guadagnare prestigio internazionale e rendere più coese le precarie entità immaginate come “nazioni”. Lo stato-nazione è la cifra definitoria della partecipazione sportiva.
È attraverso l’appartenenza a uno stato, il meccanismo allo stesso tempo fluido e restrittivo della cittadinanza, che un diritto universale quale lo sport (citando nuovamente la Carta Olimpica) diventa nei fatti un diritto esclusivo del cittadino. Emerge così la grande contraddizione delle democrazie occidentali segnalata da Hanna Arendt e Carl Schmitt e acutamente attualizzata da Giorgio Agamben: non esistono, se sono mai esistiti, diritti universali, solo diritti del cittadino. Come in altri casi, lo sport riflette e amplifica questa contraddizione. Le organizzazioni sportive internazionali e nazionali non possono concepire se non come un’eccezione spettacolare e fatua l’idea di concorrenti che non rientrino tra le categorie della nazione contro altre nazioni. Come sarebbero altrimenti vendibili eventi quali le Olimpiadi o la Coppa del Mondo di calcio? La stretta sinergia tra detentori dei diritti televisivi, sponsor e organizzazioni sportive ha creato un’industria enormemente lucrativa che non può prescindere da questo stato di cose.
Categorizzare ed escludere
Il caso più evidente è offerto dal calcio, lo sport più popolare. Le norme Fifa per il tesseramento dei minori definisce almeno tre regimi di accesso alla pratica sportiva: cittadini nazionali, cittadini Ue, cittadini non-Ue. Diversi regimi comportano diversi termini di accesso, tipologie e numeri di documenti di identificazione da presentare, e tempi di valutazione delle domande di iscrizione. Nonostante approcci più o meno inclusivi adottati dalle diverse federazioni nazionali, questo «regime dei confini» – mutuando Sandro Mezzadra e Brett Neilson – della partecipazione sportiva, ha prodotto una quarta categoria di minori: coloro che non appartengono a nessuna delle altre tre. Sono minori non accompagnati, rifugiati, sans papier, undocumented, possessori di permessi umanitari temporanei, e le varie altre categorie di migranti create dalle democrazie occidentali per definire l’”altro” che si trova all’interno dei loro confini. Un modo per categorizzare e, allo stesso tempo, escludere.
L’Associazione studi giuridici dell’immigrazione (Asgi) da tempo denuncia il fatto che la Federazione italiana giuoco calcio (Figc) nega l’iscrizione ai campionati giovanili ai minori non accompagnati. Basandosi su un’interpretazione restrittiva delle norme Fifa, la Figc non riconosce la figura del tutore, che nel caso dei minori non accompagnati è di solito il direttore del centro di accoglienza in cui risiedono. Secondo i dati Eurostat, nel 2015 c’erano in Europa 90.000 minori non accompagnati. Attualmente, ricorda l’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, nel continente vi sono 680.000 apolidi, persone private dell’appartenenza ad uno stato. Sono numeri destinati purtroppo a crescere in un contesto caratterizzato da conflitti, crisi ambientali croniche e dittature. Di fronte a questo scenario la squadra olimpica dei rifugiati si presenta sotto una diversa luce: più che un messaggio di inclusione appare una riuscita operazione promozionale per l’industria sportiva globale.
Fonte: Il manifesto
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