La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 1 ottobre 2016

La nostra infrastruttura logistica. Spazi metropolitani e processi transnazionali

di Connessioni Precarie
Sul fronte orientale non c’è niente di nuovo. L’opposizione dei paesi dell’est al migration compact mostra che il tentativo di risolvere la crisi centralizzando la decisione politica all’interno dell’Unione è fallito prima ancora di nascere. Anche a ovest d’altra parte l’austerità continua a essere affermata come la pietra angolare del governo dell’Unione, sebbene i singoli Stati stiano progressivamente forzandone i confini. Anche qui niente di nuovo, si potrebbe dire: a est come a ovest i confini dell’Unione sono continuamente violati.
L’Unione europea non è quel Moloch unitario che alcuni immaginano e che essa stessa pretende di rappresentare. Le crepe della sua disgregazione sono le stesse che migranti, precarie e operai cercano quotidianamente di allargare per garantirsi una vita migliore. Tanto per Bruxelles quanto per i singoli Stati, però, il governo dell’austerità e quello della mobilità sono due facce della stessa medaglia. Mentre la Commissione cerca di imporre un sistema coordinato per tutta l’UE, gli Stati mettono in scena uno scontro che non intacca il governo neoliberale dell’Unione. Questo gioco delle parti è ormai parte integrante della costituzione materiale dell’Europa e dei suoi Stati e, anche laddove la sovranità nazionale è invocata a viva voce, il dispotismo del capitale è imposto attraverso il predominio incontrastato degli esecutivi. È ormai chiaro che la presunta difesa delle prerogative sovrane non è che un’articolazione delle politiche di austerità, il cui prezzo viene costantemente pagato da precarie, operai e migranti. È quindi illusorio pensare che, in Italia come altrove, questo predominio e quel dispotismo possano essere rovesciati dando una spallata al governo attraverso un referendum, un’elezione o una manifestazione stagionale. L’Europa è il campo di contesa sul quale far valere la pretesa di libertà e l’insubordinazione allo sfruttamento praticate dalle precarie, dagli operai e dai migranti che ogni giorno attraversano il suo spazio con i loro movimenti. L’Europa è il terreno minimo sul quale praticare una prospettiva politica transnazionale. Ciò lascia tuttavia aperto il difficile problema di comprendere quale sia la scala della nostra iniziativa politica, a partire dalla consapevolezza che non è possibile contrapporre il piano transnazionale e quello territoriale: mentre fermarsi al primo finisce per essere un esercizio politicamente sterile, puntare solo sul secondo ci condanna all’impotenza.
Partiamo allora da un fatto: la dimensione transnazionale è già presente nel locale e riconfigura radicalmente le sue coordinate, tanto dal punto di vista materiale quanto da quello istituzionale. L’iniziativa transnazionale, perciò, non può più essere concepita come il risultato di una messa in rete, federazione o coalizione di differenti esperienze radicate sui territori, perché ogni territorio è attraversato da poteri sociali che si muovono attraverso i confini e che continuamente li producono e riproducono. Come dimostrano le lotte dei migranti nella logistica, anche conflitti apparentemente radicati sul territorio riguardano linee di comando e organizzazione del lavoro transnazionali e coinvolgono una forza lavoro mobile che non può più essere identificata secondo i criteri della cittadinanza. Le stesse città, sulle quali investono le ipotesi di «nuovo municipalismo», sono parte di uno spazio metropolitano che non coincide con quello municipale ma lo determina.
Metropolitano è lo spazio della produzione e riproduzione sociale, creato dalla connessione logistica tra hub di servizio e zone industriali poste anche a migliaia di chilometri di distanza e nel quale le direttive dell’Unione, mediate dai singoli Stati, ricadono, determinando le condizioni politiche dello sfruttamento. Lo spazio metropolitano è organizzato da regimi giuridici che connettono ogni singola azione amministrativa locale alle politiche neoliberali europee, alla direzione finanziaria impartita dall’Unione e alle strettoie del suo governo della mobilità in modo funzionale al dominio del capitale globale. Basta leggere in che modo le linee di finanziamento europee parlano della governance delle città per capire che essa è costituita da assetti di governo che si confondono con le zone di scambio e sono connessi con altre «regioni metropolitane» o «zone urbane», che costituiscono le basi dello sviluppo economico in quanto capaci di unire tutti i livelli della catena produttiva: dalla scuola all’Università alla fabbrica, passando per i nuovi centri delle reti logistiche. La metropoli è in questo senso uno spazio post-coloniale, non per gli effetti persistenti di una passata dominazione, ma perché è governata secondo criteri coloniali di efficienza, differenziazione e gerarchizzazione per via amministrativa divenuti ormai globali. Questo governo dello spazio metropolitano si serve delle istituzioni municipali incatenandole a uno Stato che non si rivolge a tutti i cittadini allo stesso modo, ma governa e reprime i loro movimenti con diverse intensità, combinando l’azione assistenziale o coattiva dei servizi sociali all’esercizio della forza armata nelle periferie. Lo spazio metropolitano, allora, comincia là dove la cittadinanza è destrutturata, dove la precarietà si manifesta come mobilità, frammentazione e gerarchia mettendo radicalmente in questione le forme tradizionali dell’organizzazione e dell’iniziativa politica, da quella sindacale a quella elettorale.
Questa configurazione impone di ripensare il modo in cui la città può essere oggi l’orizzonte di riferimento di un’iniziativa politica alla luce di due diversi ordini di problemi. Il primo ha a che fare con la reale capacità di azione delle istituzioni municipali in relazione tanto allo Stato, quanto all’Unione quanto, infine, alle dinamiche transnazionali che attraversano lo spazio metropolitano in cui le città sono inserite, in modi anche molto diversi l’una dall’altra. Questa differenza è qualcosa con cui è necessario fare i conti, per non istituire modelli ideali che, come nel caso di Barcellona, sembrano semmai segnalare l’originalità, ma anche la specificità di un’esperienza. Il secondo ordine di problemi riguarda invece la capacità di fare della città uno spazio di organizzazione, senza per questo rivolgersi a un indeterminato pubblico dei «cittadini», unito da improbabili bisogni comuni, dall’essere l’oggetto complessivo e il destinatario universale di una medesima amministrazione o da una generica volontà di partecipazione attiva nei processi di decisione che dovrebbe coinvolgere anche chi non ha la cittadinanza. Questo modo di guardare alla città non avrebbe nulla di particolarmente nuovo. Per non limitarsi a una pratica di lobbismo pre-elettorale, magari anche utile nel breve periodo ma di incerta e improbabile prospettiva, una politica nella città deve necessariamente offrire alle figure irriducibilmente diverse del lavoro vivo contemporaneo la possibilità di riconoscersi, non in nome di un’identità etnica o etica già condivisa o di una presunta tradizione ribelle, ma in vista di un progetto comune di insubordinazione, emancipazione e lotta. Il municipalismo può essere nuovo se è all’altezza dell’orizzonte metropolitano e dunque transnazionale in cui si costituisce la città. Ciò significa che la ribellione non può consistere nella ricostruzione localizzata di una comunità andata in frantumi, né si può risolvere mettendo in rete sul piano europeo le esperienze esistenti: la città deve diventare il fulcro di un processo di sollevazione del lavoro vivo che, anche per consolidare la sua forza e le sue conquiste sul piano istituzionale, deve essere in grado di interrompere i momenti della produzione e riproduzione sociale che organizzano lo spazio metropolitano a partire da un progetto politico che ne riconosca la dimensione già globale e offra a quella sollevazione la sua infrastruttura logistica.
Riconoscere il modo in cui la dimensione transnazionale ridetermina quella locale significa allora rovesciare l’ordine delle priorità: non si tratta di partire dal locale per arrivare al transnazionale, secondo un movimento progressivo di accumulazione di esperienze o attraverso una messa in rete e coalizione dell’esistente, ma di collocare ogni iniziativa locale in quell’orizzonte transnazionale capace di conferirle forza espansiva. DIEM 25 sembra avere compreso la necessità di questo rovesciamento, perché assume l’Europa come propria dimensione specifica aggirando, almeno a parole, l’idea di una federazione internazionale di partiti o movimenti nazionali. Ciò dovrebbe spiegare la polemica di Varoufakis contro il «sovranismo» e le proposte di uscita a sinistra dall’Unione. Al di là della singolare scelta di assumere il sig. Fassina Stefano quale interlocutore, ciò che conta è la registrazione che la sovranità degli Stati è ormai radicalmente riconfigurata dal piano transnazionale entro il quale essa agisce. Come nel caso delle città, criticare l’idea di una sovranità di sinistra non è semplice materia di dibattito politico e teorico, ma riguarda le forme pratiche di organizzazione del conflitto e i soggetti che le praticano e che trovano in esse espressione. Sino a oggi, per DIEM il riferimento privilegiato sono i cittadini europei delusi dall’Unione. Ma i cittadini sono tali perché c’è una sovranità, così come l’idea di costruire un demos europeo è una prospettiva di riattivazione della sovranità, non la sua critica. Anche dando per scontata la praticabilità delle campagne di disobbedienza civile e governamentale degli Stati, delle regioni o dei municipi, il problema qui si presenta rovesciato e non sembra cogliere ciò su cui insistiamo, ovvero che il transnazionale non è un piano a sé stante, ma è già nel locale e nel territoriale.
Promuovere la disobbedienza degli Stati, o delle regioni e dei municipi nei confronti del comando dell’Unione replica l’idea di un assetto istituzionale in cui questi diversi livelli sono chiaramente distinguibili e relativamente autonomi e possono essere utilizzati uno contro l’altro a seconda delle occasioni. I processi elettorali possono essere certamente spazi di mobilitazione e quindi di soggettivazione, anche importanti, ma non si può affidare loro il compito di resistere alle dinamiche del capitale globale. Non si tratta solo del carattere ovviamente limitato delle decisioni che possono essere prese tramite elezioni, che è certamente evidente a tutti. Si tratta piuttosto dell’implicita delimitazione del campo di azione e della difficoltà di connettere produttivamente i movimenti del lavoro vivo con la gestione quotidiana degli eventuali risultati elettorali in assenza di un’organizzazione in grado di mantenere quella connessione nel tempo. Da tempo le elezioni non sono più un esercizio di democrazia. Quando va bene, esse possono essere un momento di lotta dentro e contro il sistema democratico di dominio. La democrazia è certamente un problema urgente: mentre a est sempre più paesi stanno abbandonando procedure democratiche ed erodendo spazi di libertà, tanto formale quanto sostanziale, in ogni punto d’Europa la dinamica dell’inclusione è stata sostituita da una produzione di differenze e gerarchie che servono a irreggimentare il comando capitalistico. La risposta a questo processo non può tuttavia coincidere con una larga intesa degli scontenti e una coalizione di militanti non allineati, reclutati all’occorrenza anche tra le fila di fantomatici «conservatori progressisti». Allo stesso modo, non è possibile pensare che una politicizzazione di massa possa darsi attraverso il feticismo della procedura e piattaforme virtuali in cui la forma della decisione è sempre prioritaria rispetto al programma. Per diventare lo spazio per una presa di parola di precarie, operai e migranti, la mobilitazione democratica deve essere pensata a partire dalla mobilità del lavoro vivo, dalle sue condizioni materiali e dal rifiuto dello sfruttamento e dell’oppressione che esso quotidianamente esprime. A partire da qui, una lotta per la democrazia che non sia né un fittizio piano di riforma dell’Europa dell’austerity né un sogno tecnocratico dovrà riempirsi di contenuti e offrire strumenti di lotta e costruzione di autonomia nelle condizioni attuali. Rivendicare un salario minimo europeo, reddito e welfare europei e un permesso di soggiorno europeo significa per noi fare della lotta per la democrazia un progetto di emancipazione che, incidendo sul tempo e sulle condizioni della produzione e riproduzione sociale, sullo spazio metropolitano sul quale il capitale esercita il suo dominio, sia capace di impattare i pilastri dell’Europa dell’austerity e il regime europeo del salario. Queste rivendicazioni possono connettere i diversi livelli di iniziativa politica sul piano locale e transnazionale. Avanzare rivendicazioni europee è l’unico modo per scardinare la falsa alternativa tra europeisti e antieuropeisti, che sono accomunati in realtà dalla condivisione del progetto neoliberale di comando sul lavoro. Per quanto rilevante, il problema non è oggi verso chi indirizzare queste rivendicazioni, ma pensare chi può oggi riconoscersi in esse. Quelle rivendicazioni non sono parte di un catalogo di diritti, ma identificano salario, welfare e mobilità quali terreni materiali di scontro, partendo dalla consapevolezza che ogni precaria, migrante e operaio può farsi valere in ogni singolo luogo solo utilizzando degli strumenti transnazionali.
Questo non significa negare o aggirare la necessità di fare i conti con il piano istituzionale, che è tanto più rilevante quanto più è urgente consolidare a tutti i livelli ciò che precarie, operai e migranti possono conquistare con le loro lotte. Ma queste conquiste sono possibili solo attraverso un’accumulazione di forza che a sua volta non è data, ma è la posta in gioco di qualunque progetto che abbia la pretesa di essere espansivo e di durare più di una stagione. Risulta perciò difficile immaginare che questa accumulazione possa compiersi in Italia attraverso la mobilitazione «sociale» in vista del referendum costituzionale. Che cosa significhi sociale non è politicamente dato, né quando si organizza l’opposizione al referendum, né quando si cerca di organizzare lo sciopero sociale transnazionale. In entrambi i casi non può significare la somma delle esperienze esistenti, anche perché sarebbe davvero illusorio pensare che la somma delle nostre forze attuali sia qualcosa di significativo. Tanto sul piano locale quanto su quello transnazionale «sociale» deve essere lo spazio di espressione di tutti quei segmenti del lavoro vivo che sono colpiti tanto dalle norme della riforma costituzionale quanto da quelle dei governi europei. Il sociale non è un fronte, ma uno spazio aperto sul quale nessuno può vantare una superiore legittimità, perché nessuno è finora riuscito nemmeno lontanamente ad approssimarne la definizione. Solo ponendo questo problema del «sociale» c’è la possibilità che il nostro No sia differente e autonomo dal variegato caravanserraglio che con l’occasione del referendum vuole saldare i suoi conti con il governo Renzi.
Va riconosciuto nel progetto di riforma costituzionale il disegno di consolidare quel predominio dell’esecutivo che è parte integrante della politica neoliberale. Questo predominio è inscritto nella costituzione materiale tanto dell’Unione quanto dei suoi Stati e non sarà la difesa della Carta costituzionale, la garanzia dell’alternanza al governo o il ritorno al bicameralismo perfetto a invertire questa tendenza. L’occasione del referendum non può perciò essere la replica di altre spallate ad altri governi, ma deve mostrare ovunque i nessi tra questa riforma e il dominio quotidiano che milioni di persone subiscono ogni giorno e che sono regolarmente taciuti dallo scontro tra il sì e il no. Quei nessi non sono immediatamente evidenti. Per questo, più che produrre improvvise chiamate a raccolta delle componenti organizzate di movimento e parti dei sindacati, accontentandosi di una manifestazione più o meno grande o di uno sciopero più o meno rituale, è necessario mostrare questi nessi in tutta la loro brutalità, sapendo che essi non cominciano e non finiscono con il referendum e nemmeno con il governo Renzi. L’autonomia del nostro No non può limitarsi al quadro istituzionale italiano, così come non può accontentarsi di quello che abbiamo. La nostra opposizione può essere sociale solo se diventa lo spazio in cui si esprimono diversi segmenti di classe, con una presenza di massa che supera i confini del tessuto militante e che sappia perciò investire i rapporti di forza transnazionali che organizzano la società.
La Francia ha mostrato che nemmeno il più grande sciopero sociale e la più grande sollevazione del lavoro vivo che l’Europa abbia visto negli ultimi anni sono riuscite a evitare l’approvazione della loi travail attraverso la ripetuta imposizione dello stato d’urgenza da parte del governo. Non si tratta però di registrare una sconfitta, ma di riconoscere che è ormai impossibile conseguire una vittoria eludendo il piano transnazionale su cui si gioca la partita. Lo hanno compreso bene le realtà francesi che, dopo essere state protagoniste degli scioperi e della mobilitazione di Nuit Debout, ora sostengono la costruzione della tre giorni del 21-22-23 ottobre a Parigi, nella prospettiva di rafforzare il processo verso uno sciopero sociale transnazionale. Dopo l’esperienza di Poznan, che ha indicato nell’Est Europa un terreno centrale di iniziativa, il meeting di Parigi dovrà affrontare il problema di come superare il limite delle lotte nazionali e costruire momenti di sollevazione del lavoro vivo capaci di attraversare i confini e di accumulare forza. La piattaforma dello sciopero sociale transnazionale può diventare la nostra infrastruttura logistica per connettere le lotte locali e quotidiane e irrompere tanto negli spazi metropolitani quanto nei processi transnazionali per contrastare il governo dell’austerità e della mobilità.

Fonte: connessioniprecarie.org

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