di Leonardo Clausi
La metafora alpinistica l’ha usata proprio lui, nel discorso di chiusura del congresso. È una montagna elettorale quella che aspetta il Labour di Jeremy Corbyn, appena rieletto leader con uno schiacciante 62% dei voti: impervia, tuttavia scalabile. E dopo un anno in cui i suoi compagni di cordata – i deputati del Parliamentary Labour Party (Plp) – hanno cercato di farlo precipitare in tutti i modi, il leader è un arrampicatore più esperto. Il suo secondo discorso d’insediamento in un anno alla platea di Liverpool è stata una faccenda assai più equilibrata e lucida, e non solo perché ha imparato a usare il gobbo.
Il Corbyn di oggi, forte di un mandato inoppugnabile, è più lucido ed equilibrato. Il minimo indispensabile di fronte alla possibile mossa da parte di Theresa May di convocare a sorpresa elezioni anticipate l’anno prossimo, per approfittare dello scompaginamento interno del principale partito d’opposizione. È con questa sudata calma che ha enunciato il socialismo soft (per il XXI secolo, secondo la sua definizione) del programma con cui il Labour si presenterà alle prossime elezioni politiche, anticipate o meno che siano. Un programma a base di massicci interventi pubblici che ora andrà al vaglio del partito nel suo complesso, prima della ratifica.
Il Corbyn di oggi, forte di un mandato inoppugnabile, è più lucido ed equilibrato. Il minimo indispensabile di fronte alla possibile mossa da parte di Theresa May di convocare a sorpresa elezioni anticipate l’anno prossimo, per approfittare dello scompaginamento interno del principale partito d’opposizione. È con questa sudata calma che ha enunciato il socialismo soft (per il XXI secolo, secondo la sua definizione) del programma con cui il Labour si presenterà alle prossime elezioni politiche, anticipate o meno che siano. Un programma a base di massicci interventi pubblici che ora andrà al vaglio del partito nel suo complesso, prima della ratifica.
Con uno schiaffo in faccia al «pragmatismo» dei moderati, tutti per l’introduzione di controlli all’immigrazione, Corbyn ha ammonito dal fare promesse che non si possono mantenere, riaffermando così la coerenza di certi principi della sinistra che con troppa disinvoltura erano stati gettati fuori bordo. Anziché «seminare divisione», ha invitato a intervenire con politiche di riequilibrio delle retribuzioni in Europa, in modo da contenere la corsa ai salari britannici e stanziare più denaro per servizi pubblici, come sanità e istruzione, che sono più sotto la pressione del flusso migratorio.
Si è anche soffermato sulla necessità di terminare la guerra di trincea fra sinistra e moderati che paralizza il partito, riaffermando la propria determinazione a eradicare il rischio di antisemitismo tra certe fila di militanti. E ha reiterato le responsabilità di Tony Blair nella catastrofe irachena, (dopo che il vice leader Tom Watson aveva ammonito la platea dal criticare troppo l’eredità del binomio Blair-Brown), e ha annunciato la fine della vendita di armi all’Arabia Saudita.
Altre misure accennate nel discorso includono più soldi per l’edilizia popolare, innalzamento delle tasse alle imprese per finanziare i costi dell’istruzione universitaria – tanto ormai di risanamento del deficit non parla più nessuno, nemmeno a destra – lotta dura alla reintroduzione delle elitarie grammar schools annunciata dal governo May e al Trade Union Act, che inasprisce le regole sindacali. Ma il nocciolo duro da deglutire per i centristi filobusiness un tempo egemoni nel partito è stata la chiara istanza antimercatista: «Il cosiddetto libero mercato ha prodotto diseguaglianze grottesche». E ha aggiunto: «Il crashbancario globale è una lezione di avidità e speculazione fuori controllo che ha schiantato economie in tutto il mondo e ha richiesto il più grande intervento del governo e di bailout pubblico della storia».
Un chiaro segnale ai rappresentanti dell’«estremo centro», appena un anno fa ancora indiscussi padroni di casa e che ora si trovano improvvisamente a essere una minoranza confusa, livorosa e scarsamente rilevante. E che al massimo può stare a guardare, sperando in un altro fallimento del proprio stesso partito, diventato per loro irriconoscibile. Del resto, l’ipotesi scissione appare al momento impraticabile: cosi com’è, il sistema elettorale condannerebbe i transfughi a una quasi totale obliterazione.
Fonte: il manifesto
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