di Andrea Bagni
Quando mi capita di parlare pubblicamente del mio lavoro di insegnante mi trovo spesso in una situazione un po’ strana. Il tema è quasi sempre il disastro della scuola, impoverita, abbandonata, in crisi di prestigio e autorità, dimenticata da decenni come dicono alcuni. E io penso dimenticata… Magari i governi ci avessero dimenticati. Hanno tutti messo mano alla grande riforma epocale, e con Renzi è arrivato il manifesto ideologico della meritocrazia tutta chiacchiere e distintivo, che non c’entra nulla con la scuola reale ma la invade di aziendalismo e gerarchie, superpoteri strampalati ma buoni per annunci luccicanti.
Anch’io dunque parlo della crisi e della devastazione della scuola. Non mancano gli argomenti. Berlusconi e Renzi hanno ridotto il popolo a pubblico televisivo, moderna plebe. Le scuole pubbliche sono per definizione un nemico, un corpo estraneo. È quasi una questione di stile. Istintiva, antropologica. E tuttavia poi mi chiedo come vivo davvero questo disastro. Perché non cerco di fuggire. Perché non ho mai cercato.
Che vuoi fare ormai?
Arrivo al mio istituto tecnico dopo una mezzora di auto. Ho ascoltato giornali radio e rassegne stampa. Arrivo depresso che faccio pena a me stesso. In sala docenti il solito mugugno triste, misto di rabbia e rassegnazione. Dopo la primavera dell’anno scorso ancora più pesante il disincanto, ancora più difficile il conflitto, ancora più inattaccabile il potere. Che vuoi fare ormai?, la frase chiave. E ogni tanto le classi spariscono perché in auditorium ci sono le ore obbligatorie della nuova scuola-lavoro. Un «esperto» che mostra un video del goal strepitoso di Ibrahimovic nell’Ajax e spiega agli studenti che non devono credere alla storia della crisi economica. Quella c’è sempre stata. Devono invece prendere esempio da Ibra: anche se nascono da famiglie sfortunate puntare sui propri talenti e farsi imprenditori di se stessi.
In classe siamo stati bene
Mi rattristo un po’ ogni tanto. Ma poi alla fine della mattina dalle classi mi capita spesso di uscire felice. Fuori è il Grande Freddo, la scuola è un casino – ma in classe, in quegli spazi ravvicinati siamo stati bene, mi sembra. Sono successe delle cose belle, significative. Si è costruito qualcosa.
Il fatto è che la scuola è un contenitore burocratico e macchinoso, le classi sono un set rigido di spazi e tempi. Banchi in fila, registri, voti e crediti, campanelle e circolari. Qualcuno che esce dettando compiti, qualcun altro che entra e interroga sui compiti dati. Dare e avere, partita doppia dell’apprendimento. Cattedre e pugnali. Tutto costruito per uccidere passioni e desideri. Di giovani e anche di adulti.
Però quel contenitore è attraversato da processi viventi e il vivente ha una sua forza notevole. Evade dai confini della buropedagogia. Usa le pause, riempie gli interstizi, crea momenti di libertà nella megamacchina. Una ragazza porta all’esame Boccadirosa e Sarah Brown di Spoon River, parla del cielo che conosce l’amore ma non i matrimoni – poi (a parte) racconta della sua storia in bilico fra due ragazzi. Un’altra in seconda, a partire da Holden Caufield che dice addio all’ennesima scuola, legge un ricordo della casa del nonno, si commuove ma va avanti fino alla fine, è la sua cerimonia di saluto… Forse paradossalmente la forma così strutturata dello spazio scolastico, a geometria invariabile, finisce per distillare relazioni più intense. Intellettuali e allo stesso tempo sentimentali. In mezzo alle parole ordinate e sequenziali tipiche della trasmissione delle conoscenze c’è spazio per una comunicazione fatta di parole non dette e non ordinate. Di cose sentite. Che forse rimangono quando dei programmi scolastici si è dimenticato tutto. Insomma la sfera delle relazioni ha una sua vita ed è lì dentro che si costruisce il sapere. Sono echi interiori, dubbi, domande. E risposte che non chiudono, segno di una ricerca che può essere comune.
La vita sottratta ai riformatori
Malgrado tutte le riforme dall’alto e da fuori che cercano di modellare l’istituzione a propria immagine e somiglianza, credo che ancora nella scuola ci sia la possibilità di una resistenza che è fatta anche di spostamenti e sottrazioni. Da un lato vie di fuga, tecniche di aggiramento e di sopravvivenza. Dall’altro protezione di una scuola altra. La cui vita intima resta segreta ai grandi riformatori. Proprio non la vedono o non sanno che farsene. E invece può costituire un paradigma del tutto diverso del discorso sulla scuola.
Perché c’è bisogno di una politica scolastica che produca cambiamenti. Che rifletta sul sapere che ha senso oggi, su come si costruisce la conoscenza nell’epoca delle passioni tristi, con la crisi dei padri teologici e del valore di scambio del titolo di studio – che però può far crescere il valore d’uso del sapere. Ma c’è bisogno di interventi di apertura e di cura. Che allarghino spazi e tempi del fare scuola, che offrano materiali da costruzione e mezzi per crescere collettivamente, creativamente. Con la consapevolezza della logica specifica dell’oggetto specifico su cui si interviene. Che non è meccanicistica, casomai biologica. Ha dentro un tessuto collettivo, connessioni orizzontali, e il passare del tempo: un tempo irreversibile perché è il tempo delle biografie. Nulla a che vedere con il paradigma lineare che domina il pensiero produttivistico: avanti col programma, poi indietro per recuperare, poi di nuovo avanti. Input e output, valutazione come classificazione: misurazione della differenza fra ciò che si è versato nelle teste (che si immaginano vuote) e ciò che è rimasto.
Tutto sotto controllo. Tutto misurabile «scientificamente». Peraltro su quei dati, che fanno fuori un mare di variabili significative e dunque sono proprio scientificamente fragili, si vorrebbero fondare gerarchie non condivise collettivamente e un’organizzazione aziendalistica quanto neofeudale che potrebbero davvero distruggere, nella competizione miserabile per un micro riconoscimento in busta paga, qualunque possibile collaborazione.
Apriamoci all’imprevisto
Si fa scuola all’interno di una dimensione circolare quanto asimmetrica. E il processo non è mai predeterminato fino in fondo. Non sono errori di programmazione le sorprese o le deviazioni del percorso. Sono l’apertura dei processi viventi all’imprevisto, al nuovo. Come sa il venditore di almanacchi di Leopardi, che chiede una vita come viene, a caso, non quella del principe o del signore. E pure il passeggere, che il calendario per l’anno nuovo lo compra e compra il più bello. Per ragazze e ragazzi di oggi una specie di ottimismo cosmico.
E però ci vorrebbe una scelta rivoluzionaria. Un investimento sulla fiducia nei piccoli e grandi abitanti della scuola. Sulla loro capacità di autoriforma. Sul loro desiderio di sapere del mondo e di sé.
Fonte: Il manifesto
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