di Salvatore Settis
Ritengo necessario pronunciare un energico no alla riforma costituzionale Renzi-Boschi, per considerazioni specifiche che ho meglio articolato nel mio recente libro Einaudi Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla. Secondo Piero Calamandrei, «quando il Parlamento discuterà pubblicamente la Costituzione, i banchi del governo dovranno esser vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana». Questo galateo istituzionale è stato violato brutalmente dal governo Renzi.
Questa e altre (numerose) improprietà e forzature nella procedura non basterebbero da sole a giustificare un pieno no, che solo il merito della riforma può, anzi deve, innescare. Lo giustificano, invece, altre ragioni, per esempio:
con scelta politica quanto mai impropria, la proposta di riforma si è intrecciata a una nuova legge elettorale (detta Italicum), che pur essendo stata fatta dopo la sentenza della Corte costituzionale che condannava il Porcellum bollandone la «illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principî costituzionali», ha ribadito, truccandoli, i due motivi di incostituzionalità di quella legge, un irragionevole premio di maggioranza (di fatto assegnabile, al secondo turno, anche a una minoranza, poniamo del 20%), e un meccanismo che favorisce i nominati e limita le scelte degli elettori;
confuse campagne di disinformazione hanno oscurato la vera natura della riforma, presentandola come «la fine del monocameralismo», mentre il Senato sopravvive, in un intrico di competenze dello sterminato art. 70, che non meno di 11 ex presidenti della Corte costituzionale hanno denunciato come fonte di conflitti di competenze e ritardi nelle procedure;
l’abolizione dei Consigli provinciali (elettivi), lasciando le Province presidiate dai prefetti, che dipendono dal governo, si congiunge a un Senato di nominati dalla politica, a una Camera per oltre il 50% condizionata dalle nomine dei “capi” dei partiti; cioè corrisponde a una forte diminuzione della democrazia;
il meccanismo di elezione del presidente della Repubblica (art. 83), che dal settimo scrutinio prevede una maggioranza dei 3/5 non dei componenti il collegio elettorale, ma dei votanti, comporta una violenta delegittimazione della più alta carica dello Stato;
con la modifica dell’art. 67 i membri del Senato non rappresenteranno piú la Nazione eppure del Senato faranno parte di diritto gli ex presidenti della Repubblica, derubricati a rappresentanti delle autonomie locali: ulteriore delegittimazione della figura del capo dello Stato e della sua funzione.
Queste sono solo alcune delle storture di una pessima riforma, che non affronta i veri problemi del paese, dalla corruzione all’evasione fiscale, dalla disoccupazione alla decrescita infelice della produzione. Una riforma voluta da un governo che intanto nulla fa per attuare gli articoli della Costituzione fino a oggi rimasti lettera morta (per citare un solo esempio, l’art. 3 sul diritto al lavoro).
Fonte: Il Ponte
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