di Gianluca Piovani
Pochi giorni fa, in occasione del simposio di Jackson Hole del 27 agosto, il presidente della FED Janet Yellen è intervenuta per fornire spiegazioni e un’interpretazione“d’autore” all’attuale politica monetaria USA. Il messaggio lanciato davanti un pubblico d’eccezione, comprendente i maggiori economisti e banchieri centrali a livello mondiale, è stato che seppure lo scenario economico sia migliorato da inizio anno, tuttavia rimane ancora incerto e richiede una politica monetaria dinamica ed attenta al flusso degli “hard data”.
Il discorso della Yellen fa riferimento in primo luogo al miglioramento delle prospettive da gennaio. Ad inizio anno infatti erano nati timori di crisi e recessione globale che avevano portato a crolli di mercato e panico generalizzato. Questi timori di catastrofe si sono per ora rivelati infondati e i dati sull’andamento dell’economia reale hanno confermato una situazione economica in positivo. D’altra parte il discorso del presidente Yellen prosegue ricordando come il contesto economico rimanga debole e sia ancora sostanzialmente in monitoraggio.
I timori di inizio anno riguardo le possibili evoluzioni del contesto economico rimangono in effetti inalterati. L’Europa continua a soffrire la situazione politica tesa, di cui è divenuto recentemente il simbolo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. La Brexit è solamente la punta di un iceberg più profondo che mina i rapporti tra i diversi stati alimentando sfiducia verso un modello accusato di essere eccessivamente germanofilo. Se da un lato l’Unione Europea sembra paralizzata e messa in scacco dai dissidi tra i vari stati, anche all’interno di questi la situazione è precaria: in sempre più stati infatti si pongono problemi di ingovernabilità causati da partiti euroscettici e dall’offerta politica situata all’estremo dei confini tradizionali come per esempio in Spagna dove tuttora manca un governo. Da un punto di vista economico inoltre la crescita rimane debole, con possibili rischi a ribasso dovuti all’uscita del Regno Unito, e l’inflazione è sostanzialmente pari a zero. Queste circostanze rendono difficile sostenere i debiti sovrani di vari paesi tra cui ad esempio la Grecia, il cui problema non è in realtà ancora definitivamente risolto, e l’Italia.
Negli USA prosegue il ciclo economico iniziato dopo la crisi del 2009. Nonostante i forti stimoli monetari e le numerose operazioni di QE della FED, la crescita rimane sottotono ed inferiore al livello del 2%. Da un punto di vista di composizione della crescita, questa sembra sostenuta dai consumi privati e non dagli investimenti che invece restano deboli. L’abbondante liquidità immessa nel mercato dalla FED viene utilizzata dalle aziende non per investire e migliorare la produttività, ma per effettuare operazioni finanziarie di buy back, fusioni ed acquisizioni tipiche di un ciclo economico maturo. Vari commentatori notano che quello partito dal 2009 ad oggi sia uno dei periodi più lunghi senza recessioni e si attendono quindi un rallentamento economico a breve. La frenata dell’economia americana in casi di ciclo maturo viene tipicamente innescata dall’inizio di una politica monetaria restrittiva da parte della FED, che in effetti è in corso. La politica monetaria espansiva degli ultimi anni sta infatti alimentando l’inflazione “core” (esclusi energia ed alimentari), che ha già raggiunto il livello del 2%; l’aumento dell’inflazione ha portato la banca centrale statunitense ad intraprendere un primo rialzo dei tassi nel dicembre 2015. La poca chiarezza del discorso del presidente Yellen è infatti in gran parte attribuibile ai due contrastanti principi di muoversi restrittivamente per normalizzare l’inflazione ed invece allentare la politica monetaria per non mettere a rischio la crescita. Riassumendo, mutatis mutandis, come in Europa anche negli Stati Uniti la situazione economica non è priva di elementi di debolezza.
Ed infine i paesi emergenti. Anche questi non sono immuni da rischi a ribasso. Come risaputo la Cina necessita di rivedere il suo sistema produttivo, il quale è affetto da un eccesso di capacità produttiva. Intenzione dell’establishment cinese sarebbe quella di ridurre progressivamente il settore industriale riconvertendolo verso aree più produttive ed a maggior valore aggiunto come i servizi. Questa riconversione d’altra parte non è detto avvenga in modo indolore ed espone al rischio di un cosiddetto “hard landing”, ovvero di uno scenario in cui l’industria subisce uno shock negativo mentre il settore dei servizi non si dimostra sufficientemente forte per sostituirla causando così una crisi economica. Questa potrebbe partire dalle cosiddette SOE (State Owned Enterprises), colossali strutture pubbliche in alcuni casi inefficienti e guidate da logiche non di mercato. Il fallimento di alcune di queste aziende potrebbe coinvolgere negativamente il settore bancario, il quale è attualmente molto esposto verso queste entità e presenta elementi di possibile debolezza a causa degli scarsi accantonamenti sui crediti. Gli altri BRICS (India a parte) sono al momento impegnati a contenere gli effetti negativi del crollo dei prezzi del petrolio e delle materie prime, fondamentali per queste economie. La diminuzione del prezzo di questi beni ha avuto infatti conseguenze molto negative sulle valute, la crescita e l’inflazione di Brasile, Russia e Sud Africa.
Come spiegato sopra, la situazione economica globale rimane molto incerta. Le prospettive future non sembrano quindi incoraggianti e la scarsa crescita a livello globale conferma l’attuale scenario nel migliore dei casi grigio e privo di crescita significativa. Il dibattito economico attuale si sta quindi focalizzando sulla ricerca di possibili soluzioni e questa empasse.
L’analisi della situazione economica attuale suggerisce come lo strumento della politica monetaria espansiva sia già stato utilizzato appieno fino a divenire inefficace e giungendo ad una cosiddetta situazione di trappola della liquidità. Una volta portati a zero o addirittura in territorio leggermente negativo i tassi di interesse per stimolare l’attività economica e gli investimenti ed avere messo a disposizione abbondante liquidità tramite operazioni di QE, non è in pratica possibile letteralmente obbligare gli operatori economici a spendere questo denaro. Considerate le prospettive economiche poco brillanti e l’incertezza riguardo queste, gli operatori economici preferiscono risparmiare a spendere; la mancata intrapresa di maggior consumi o investimenti industriali a causa di questa mancanza di fiducia nella crescita economica diminuisce la stessa crescita portando ad un circolo vizioso, rendendo difficile uscire da questa situazione di stallo senza un intervento “esterno”. Questa in pratica è la situazione economica attuale, che già descrisse efficacemente il celebre Keynes dicendo che è possibile portare un cavallo all’abbeveratoio ma non è possibile obbligarlo a bere (coniando così il celebre aforisma da cui traggo il titolo). La soluzione suggerita dallo studioso inglese era quella di “costringere” i consumi e gli investimenti ad aumentare incrementando le spese dello Stato: in questo caso si avrebbe sia una ripresa degli investimenti produttivi sia un aumento del reddito delle famiglie (impiegate per i lavori pubblici) e si avrebbe così uno stimolo sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta in grado di permettere all’economia di ripartire. Questa idea molto interessante ha avuto un destino ciclico nella storia economica: quando le cose vanno bene, il liberalismo impera e Keynes riscuote molti pochi favori; al contrario, quando l’economia si trova in situazioni difficili si ritorna a chiedere aiuto al buon vecchio stato e alle teorie del famoso economista.
In pratica ciò che si sta ponderando al momento è che in effetti la politica monetaria risulta uno stimolo insufficiente senza essere coadiuvata da una politica fiscale (ovvero spesa statale) anch’essa espansiva. La considerazione più ovvia è notare come il fatto che Keynes stia tornando di fatto nel dibattito economico contemporaneo suggerisce che l’economia si aggira in cattive acque. D’altra parte la soluzione keynesiana sembra a molti poco praticabile a causa del già notevole stock di debito pubblico accumulato in passato. In Europa la Germania predica quindi l’austerità agli altri paesi europei, il cui rapporto debito/PIL suggerisce infatti cautela alle finanza pubbliche, e anche negli Stati Uniti il rapporto debito/PIL ha superato il 100% (solamente pochi anni fa si era arrivati a rischiare il default tecnico a causa di una lite tra repubblicani e democratici per la modifica del limite massimo per il debito pubblico previsto dalla legge).
Gli studiosi più risoluti hanno d’altra parte proposto soluzioni innovative tra cui la cosiddetta monetizzazione del debito. Si tratterebbe di utilizzare il denaro creato dalle banche centrali non più per acquistare debito pubblico, che comunque sarà da rimborsare in futuro (ormai tipico QE, una volta definito operazione non convenzionale…), ma per trasferirlo a fondo perduto (regalarlo) agli stati. Questa operazione potrebbe quindi dare più fiato alle finanze statali abbattendo il rapporto debito/PIL e permettere l’aumento della spesa pubblica. Al contempo la monetizzazione del debito contribuirebbe a ridare fiducia agli operatori economici, che aspettandosi maggiore spesa statale e quindi crescita, ridarebbero slancio al settore privato in genere. Questo piano sarebbe una sorta di ultimo colpo di coda da tentare: storicamente si è infatti notato come una politica monetaria direttamente a favore degli stati porti a un utilizzo delle risorse irresponsabile che sfocia infine in un livello di inflazione elevato e comunque in un aumento del debito pubblico. L’Italia prima dell’euro è un emblema vivente di questa possibilità. Sforzi durati anni hanno quindi portato la politica monetaria a divenire indipendente e ad essere ancorata non alla politica ma solamente al livello dell’inflazione nell’economia. La situazione di difficoltà ritenuta ormai eccezionale sta tuttavia progressivamente portando a rivedere vari dogmi, come per esempio i tassi di interesse negativi, e potrebbe portare alla monetizzazione di parte del debito degli stati.
Una soluzione di questo genere sta venendo tentata in Giappone. Questo paese veniva da una situazione simile a quella economica globale attuale: PIL e inflazione sottotono per anni, stock di debito pubblico elevato (in questo caso superiore al 200% del PIL). La soluzione prospettata dall’attuale premier Shinzo Abe, eletto nel 2012, si componeva di 3“frecce”: politica monetaria espansiva, politica fiscale espansiva, riforme strutturali. Certamente le prime due frecce sono state ampiamente praticate. La BOJ (Bank Of Japan) è ampiamente intervenuta per ampliare la basa monetaria e gli acquisti della banca centrale sono stati anche estesi al settore azionario tanto che circola l’indiscrezione che ormai la BOJ e quindi lo stato sia diventato azionista di riferimento di varie società quotate. Anche la politica fiscale è stata espansiva sia attraverso piani di stimolo effettivi che attraverso la dilazione in futuro di incrementi nella tassazione indiretta. Il Giappone è divenuto quindi l’emblema degli effetti di politiche economiche iper espansive.
L’elezione di Abe e l’inizio degli stimoli sono stati accolti con grande favore dal mercato. Il valore della borsa Giapponese è aumentato e contemporaneamente si è deprezzato lo yen e sono diminuiti i tassi. Sfortunatamente gli effetti di medio periodo sono stati meno positivi di quanto ci si aspettasse. Il PIL del Giappone continua ad essere estremamente basso, l’inflazione quasi nulla ed il debito pubblico enorme. Dal 2015 sta quindi tornando a venire meno la fiducia degli operatori nelle politiche espansive del paese, e nonostante le iniezioni di liquidità l’azionario è in discesa e lo yen si rafforza. In sostanza le politiche espansive sopra descritte ed in cui si sperava non sono riuscite a trainare il Giappone fuori dal grigio scenario di crescita sottotono descritto in precedenza.
Se questo sia dovuto al fatto che non basta lo sforzo di un singolo paese e quindi sarebbe necessaria un’azione concordata magari a livello di G8, oppure se in effetti le politiche di stimolo economico siano state esaurite ed abbiano ormai solo l’effetto di gonfiare ulteriori bolle finanziarie (come nel 2009) è una questione dibattuta. Non esiste una risposta certa a questa questione e questo ambito dello studio economico rimane quindi aperto a ulteriori riflessioni e ad appassionanti dibattiti.
Fonte: Pandora Rivista di Teoria e politica
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