di Luigi Pandolfi
Il paesaggio europeo, politicamente parlando, è sempre più punteggiato da espressioni di insofferenza verso il progetto di integrazione. Tra innalzamenti di muri, rigurgiti razzisti e spinte centrifughe, sembra che da un momento all’altro tutto possa venire giù. Parallelamente, scema la fiducia dei cittadini nelle istituzioni comunitarie e si allarga il fossato tra gli stessi partner del sodalizio. In questo quadro, di incrollabile sembra rimanere soltanto la difesa delle vigenti regole di bilancio cui soggiacciono i Paesi della zona euro, come si evince, ancora, alla chiusura della riunione dell’Eurogruppo – Ecofin svoltasi a Bratislava.
Una difesa ad oltranza, cocciuta, incurante dei dati scoraggianti, problematici, che provengono dall’economia, come quelli appena forniti da Eurostat, relativi alle variazioni del Pil nel secondo trimestre. Dati che descrivono una nuova frenata dell’economia europea, nonostante i bassi tassi di interesse e l’iniezione a dosi massicce di liquidità nel sistema da parte della Bce.
Una difesa ad oltranza, cocciuta, incurante dei dati scoraggianti, problematici, che provengono dall’economia, come quelli appena forniti da Eurostat, relativi alle variazioni del Pil nel secondo trimestre. Dati che descrivono una nuova frenata dell’economia europea, nonostante i bassi tassi di interesse e l’iniezione a dosi massicce di liquidità nel sistema da parte della Bce.
Se si eccettuano le performance di alcuni Paesi dell’Est, come la Romania e l’Ungheria, l’Unione nel suo complesso, Germania compresa, fa registrare, infatti, livelli di crescita assolutamente insufficienti, prossimi allo zero. Una situazione che, messa in relazione con le turbolenze politiche del momento e la crescita di forze anti-Ue un po’ ovunque, dovrebbe fortemente preoccupare i maggiorenti della zona euro, i sacerdoti del tempio dell’austerità. E invece no: all’Eurogruppo si discute di come stringere meglio il cappio intorno al collo della Grecia, minacciandola di chiudere nuovamente il rubinetto dell’assistenza finanziaria, qualora in tempi rapidi non venissero evase tutte le richieste contenute nel terzo piano di salvataggio. Insomma, entro la metà di settembre il governo di Atene dovrebbe adottare ben 13 misure, tra privatizzazioni e interventi nel mercato del lavoro, previste dal memorandum, su un totale di 15, pena lo stop all’erogazione della seconda tranche del pacchetto, pari a 10,3 miliardi, di cui, però, 7,5 miliardi sono stati già anticipati.
Che poi Atene, nel secondo trimestre faccia registrare un aumento del Pil dello 0,2% a fronte di un debito al 180% della ricchezza nazionale, non importa a nessuno. D’altronde, se questo fosse stato il problema da alcuni anni a questa parte, non sarebbero stati imposti a questo Paese tre programmi di bailout a base di misure recessive.
All’ordine del giorno della riunione, comunque, non c’era solo la Grecia. Entro il 15 ottobre gli Stati membri della zona euro devono presentare alla Commissione i loro documenti programmatici di bilancio (leggi di stabilità), quindi i ministri finanziari hanno anche discusso dei preparativi per la valutazione degli stessi e delle prospettive del Patto di stabilità. Il monito per tutti è stato il seguente: «Le regole sono già abbastanza flessibili e intelligenti, perciò vanno rispettate». Riforma del Patto di stabilità? Bè, c’è tempo per renderlo «più prevedibile, comprensibile e semplice». Parola di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo. Per l’Italia, cenerentola d’Europa insieme alla Francia in quanto a crescita economica, un laconico invito a rispettare le regole, avendo già beneficiato di «molta flessibilità».
Nessun passo indietro sulla linea del rigore, quindi. L’assillo rimane «la revisione della spesa pubblica dei governi» e «la qualità delle finanze pubbliche negli Stati membri della zona euro», non i necessari stimoli all’economia, per fare uscire l’Europa dal pantano in cui si trova, men che meno gli elevati livelli di disoccupazione, peraltro allarmanti nei Paesi della periferia.
Come se non bastasse, si è provveduto anche a richiamare all’ordine Portogallo e Spagna, per i loro “elevati” deficit di bilancio (rispettivamente 4,4% e 5,1% del Pil nel 2015). Ad entrambi i Paesi si ricorda che le misure adottate a seguito delle “raccomandazioni” ricevute nel 2013 «non sono state sufficienti». E per dimostrare che a Bruxelles non si scherza, si è deciso di accelerare il confronto con il Parlamento Europeo al fine di congelare una parte dei fondi strutturali spettanti a questi due Paesi. Poco importa se le due economie, in linea col quadro macroeconomico europeo, rallentano, come dimostrano i dati relativi al secondo trimestre di quest’anno.
Rigore, bacchettate, toni minacciosi, arroccamento nelle proprie convinzioni. Tutto questo, mentre Draghi ammette che il suo programma di Quantitative easing non ha sortito finora gli effetti sperati, e che – novità importante – «le argomentazioni a favore di una maggiore crescita dei salari sono ormai incontestabili». In fondo, un monito alla Germania, cui il governatore della Bce ha chiesto maggiori sforzi sul versante della spesa pubblica e dei salari, nell’ottica di un riequilibrio commerciale tra centro e periferia. A maggior ragione se si considera che il surplus commerciale tedesco quest’anno supererà addirittura quello della Cina, 310 miliardi di dollari contro 260 miliardi.
Insomma, tra muri che si alzano, partiti xenofobi che crescono, il filo spinato che diventa il simbolo di questa nuova fase del processo di (de)costruzione europea, per alcuni ciò che conta davvero sono gli scostamenti decimali dei deficit di bilancio e l’ubbidienza della Grecia. La riunione dei Paesi del sud, convocata ad Atene, da questo punto di vista, è stato un fatto politicamente importante, ma la sua agenda è, oggettivamente, troppo minimalista.
Fonte: Il manifesto
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