di Roberta De Monticelli
Questa riflessione nasce dallo sconcerto. Di fronte a una delle posizioni più diffuse fra i sostenitori della riforma costituzionale oggi in questione. È la posizione più tenace, resiste con un'alzata di spalla alle obiezioni di merito. Lo sconcerto nasce anche dalla circostanza che questa posizione è diffusa soprattutto fra persone "di sinistra", compresi molti intellettuali, filosofi, scienziati sociali. Essi dicono: la riforma è pessima, ma si vota Sì lo stesso. Se veramente si insiste a chiedere una ragione per farlo, le risposte più comuni sono: perché non ci sono alternative. Perché cambiare bisogna, meglio cambiare un po' che niente del tutto. Perché il meglio è nemico del bene. Perché meglio qualcosa che il nulla. Perché dire No al cambiamento è da difensori dell'esistente.
La meno mistica di queste risposte è: perché la vittoria del No metterebbe il governo in mano ai populisti, oppure: perché comunque non c'è alternativa migliore all'attuale governo. Credo che nella rapinosa contingenza degli eventi politici italiani niente sia veramente prevedibile, soprattutto non con probabilità sufficiente a motivare decisioni gravi di conseguenze negative certe: ma non è questa la mia obiezione. Eccola, invece.
La meno mistica di queste risposte è: perché la vittoria del No metterebbe il governo in mano ai populisti, oppure: perché comunque non c'è alternativa migliore all'attuale governo. Credo che nella rapinosa contingenza degli eventi politici italiani niente sia veramente prevedibile, soprattutto non con probabilità sufficiente a motivare decisioni gravi di conseguenze negative certe: ma non è questa la mia obiezione. Eccola, invece.
Perché bisogna dire di Sì a una riforma pessima? Per una necessità tutta politica. Nonostante molti dettagli cruciali sino indifendibili nel merito? Che importa, se si crede che la sola motivazione nello spazio pubblico sia la "politica" intesa come lo scontro amico-nemico. Dove non ci sono vincoli, o regole, che non siano esse stesse puramente strumentali al gioco politico.
Così il senso di questa posizione si vede meglio: rappresenta la tendenza ad abolire la differenza fra il gioco e le regole del gioco, fra la contingenza politica più irripetibile offerta a un governo e la legge fondamentale di uno Stato, fra il conflitto politico in atto qui e ora e il quadro normativo e ideale in cui la competizione politica democratica dovrebbe svolgersi. E infatti: questa riforma costituzionale nasce e cresce su iniziativa governativa, come parte integrante del programma politico (mai votato dai cittadini) di un governo. L'iniziativa è resa possibile dall'esistenza di una maggioranza ottenuta in base a una legge elettorale dichiarata incostituzionale.
In seguito, è coi mezzi della battaglia politica che si forzano le procedure. È con quelli della propaganda che si spacciano come inefficienze istituzionali gli errori e la cattiva qualità delle dirigenze politiche. La logica viene ignorata nel progettare un nuovo Senato spacciato per una sorta di Bundesrat, ma in contraddizione con i requisiti di questo. Una contraddizione che provoca mostruose complicazioni nella definizione delle funzioni di un Senato delle autonomie senza autonomie, vincolo di mandato, delega degli esecutivi: un organo in tutto politico e non territoriale - ma non eletto dai cittadini. E così arriviamo all'oggi. A un governo che gira i continenti alla ricerca di voti per il sì, che li cerca perfino coi mezzi della finanziaria. Che non opera nel regime di garanzia delle minoranze sul tema più sensibile: le regole di tutti. Che dispiega la potenza di fuoco delle sue risorse per sostenere i comitati favorevoli alla sua riforma. Oggi, coram populi e a livello continentale, chi detiene il potere esecutivo rompe i vincoli del ruolo istituzionale dello Stato in funzione del programma politico di un particolare, contingente, governo.
Perché Calamandrei diceva che "Quando si scrive la Costituzione, i banchi del governo debbono restare vuoti"? Per una ragione elementare: politica e cornice normativa della politica sono due cose distinte, che stanno fra loro come il gioco e le regole del gioco. Questa differenza è un aspetto della differenza fra l'ideale e il reale: ma l'ideale non resiste altrove che nelle nostre coscienze.
Quando Calamandrei parlava della "cieca e dissennata assenza" dei cittadini, chiamandola "desistenza" e imputandola anche a se stesso, stava parlando di noi: e non soltanto della mancata resistenza al fascismo. "Desistenza" è la rinuncia della ragione di fronte alla forza, l'inchino che il diritto fa al potere e il valore al fatto. Se tutto nella vita pubblica è ridotto alla contingenza del gioco delle forze del momento, se non c'è una dignità (anche logica) della norma fondamentale, allora come possiamo sentire un qualche dovere nei confronti della Repubblica? Che senso ha più partecipare alla vita della città? Cosa resta della carità di patria? Non è questa svalutazione dell'ideale un suicidio virtuale della democrazia molto peggiore di qualunque progetto autoritario, che per lo meno avrebbe dietro di sé un pensiero, e al quale si potrebbe - almeno con parola e ragione - resistere? E come fa a invocare proprio il principio di responsabilità chi ci invita a turarci il naso e a sfigurare la legge fondamentale della Repubblica in omaggio a una contingenza politica? È ora di riscuotersi da questa disperazione, che ha il volto della noia e dell'indifferenza. E che i sofisti di oggi la smettano una buona volta di giocare con la forza terribile del nulla.
Fonte: Huffington Post - Blog dell'Autrice
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