di Andrea Festa
Una chiave di lettura delle elezioni americane è quella che le considera un segnale di discontinuità nei confronti di un’epoca di crescita economica con profonde diseguaglianze nella sua distribuzione e che ha visto la progressiva sostituzione del lavoro tradizionale – a tempo indeterminato e relativamente stabile – con moderne forme di lavoro a tempo determinato, parziale, autonomo o instabile. Secondo l’OCSE, infatti, nei Paesi avanzati circa un terzo dell’occupazione riguarda ormai questo tipo di lavori, includendo sia coloro che hanno volontariamente optato per queste forme di impiego sia chi non ha alternative ad esse.
Dati che si dilatano considerando le nuove generazioni che nel 40% dei casi sono occupate in lavori non standard, con circa il 50% degli under trenta soggetto a lavori temporanei dai quali scaturisce una instabilità persistente, se si pensa che meno della metà di questi lavori si trasforma in un impiego a tempo indeterminato nel triennio successivo.
Dati che si dilatano considerando le nuove generazioni che nel 40% dei casi sono occupate in lavori non standard, con circa il 50% degli under trenta soggetto a lavori temporanei dai quali scaturisce una instabilità persistente, se si pensa che meno della metà di questi lavori si trasforma in un impiego a tempo indeterminato nel triennio successivo.
Una serie di fattori interrelati hanno contribuito allo sviluppo di questo fenomeno, tra i quali vanno citate le riforme strutturali del mercato del lavoro che si sono registrate negli ultimi decenni in Occidente, la progressiva circoscrizione del potere contrattuale dei sindacati, ma soprattutto il cambiamento tecnologico spinto dalla maggiore apertura e integrazione delle economie e dei mercati finanziari che ha favorito la mobilità dei capitali, gli scambi commerciali e la delocalizzazione produttiva, distruggendo vecchie forme di lavoro e creandone di nuove, premiando i lavoratori qualificati e danneggiando i meno specializzati.
Una conseguenza di tali mutamenti è stato l’aumento del divario tra fasce sociali, poiché negli ultimi trent’anni una parte via via crescente del reddito nazionale delle economie avanzate è andata a remunerare principalmente il fattore capitale e i suoi possessori anziché il lavoro. E così, in media, oggi il 10% delle famiglie più ricche ha un reddito disponibile – valore calcolato al netto della tassazione, tenuto conto dell’assistenza sanitaria, dei sussidi occupazionali e sociali a favore dei meno abbienti – circa dieci volte superiore quello del 10% delle famiglie più povere, mentre negli anni ’80 era superiore “soltanto” di 7 volte.
Naturalmente il processo di globalizzazione vanta anche diversi aspetti positivi, come il declino del tasso di povertà nelle economie emergenti e la nascita di una classe media in quei Paesi proprio grazie alla delocalizzazione produttiva, alle intese favorenti il commercio internazionale e al flusso di investimenti e di know-how dalle economie avanzate che ne è derivato. Tuttavia, anche in queste economie si osserva lo stesso problema che riguarda i Paesi avanzati, ovvero una crescita non inclusiva. La crisi ha poi esacerbato le diseguaglianze, evidenziando come la recessione abbia penalizzato maggiormente le fasce della popolazione più deboli.
Sul punto, il dato sulla distribuzione della ricchezza complessiva (reddituale, patrimoniale, ecc.), essendo un valore di stock stratificato nel tempo e alimentato di anno in anno dalle varie fonti di reddito, risulta piuttosto eloquente. All’indomani della crisi, infatti, nei Paesi avanzati il 10% delle famiglie più ricche detiene mediamente circa il 50% della ricchezza, con il famoso 1% dei più ricchi che da solo ne controlla il 18%, mentre il 40% della popolazione meno abbiente deve accontentarsi di spartirsi il 3%.
In questo quadro non sembra un caso che gli Stati Uniti, in una classifica disaggregata per Paese, occupino le primissime posizioni, con una forbice della diseguaglianza economica che ha finito col colpire le aspettative e il benessere della classe media, il cui risentimento negli USA è sfociato nelle urne.
Le diseguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza, così come l’incremento dei tassi di povertà nelle fasce di popolazione giovanili dei Paesi avanzati, Italia inclusa, sono fattori che a lungo andare comprimono l’accumulazione di capitale umano e le possibilità di avanzamento sociale, minando la coesione di un Paese. È quindi nella concatenazione di questi fenomeni che va ricercata la radice dell’ondata neoprotezionista di questi tempi, che attraversa sia il Nord America sia l’Europa, salutata come l’argine a politiche sbilanciate in favore del capitale e a discapito del lavoro. Sarebbe quindi semplicistico derubricare lo shock elettorale americano all’azione di un populismo che ha fatto breccia in un elettorato manovrabile.
A questo riguardo, non è un caso l’annuncio del neopresidente USA di bloccare la ratifica dell’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e undici Paesi dell’area del Pacifico con la rilevante eccezione della Cina (TPP). Decisione che fa eco alla diffidenza dell’opinione pubblica rispetto ai negoziati per la creazione di un’area di libero scambio tra Stati Uniti e Europa (TTIP) e all’accordo simile tra Unione Europea e Canada (CETA). Diffidenza che deriva dalla constatazione di come questo genere di intese mirino a tutelare il commercio, gli investimenti e, in generale, il capitale contro politiche ostili da parte degli Stati – anche mediante la creazione di Tribunali sovranazionali per la risoluzione delle dispute tra imprese e Stati, la cui necessità suscita perplessità allorché le Parti negoziali garantiscono sistemi comparabili quanto a rispetto dello stato di diritto – mentre poco si adoperino per tutelare il lavoro dalle frizioni che la creazione di una zona transatlantica di libero scambio causerebbe.
D’altro canto bisogna ricordare che senza tali accordi, nati originariamente per proteggere gli investimenti occidentali in Paesi che non assicuravano adeguate tutele al capitale straniero, alle imprese nazionali che investono all’estero resterebbe soltanto la via diplomatica e il contenzioso tra Stati. Inoltre, nel moderno commercio internazionale, gli accordi di libero scambio servono non soltanto per eliminare i dazi, ma soprattutto per fissare standard regolamentari equivalenti al fine di snellire le procedure burocratiche, abbattere le barriere tecniche agli scambi e innalzare la protezione delle produzioni tipiche. Tema, quest’ultimo, di vitale interesse per il nostro Paese che, a causa del proliferare nel settore agroalimentare di prodotti Italian sounding dovuto al mancato riconoscimento delle indicazioni origine, vede danneggiati i produttori nazionali per miliardi di euro ogni anno nel solo mercato nordamericano.
In definitiva, l’ostilità agli scambi commerciali, alla concorrenza straniera e all’integrazione delle economie difficilmente sarà la panacea della classe media americana – così come di quelle Europee – e, anzi, può causare ritardi nell’adeguamento tecnologico delle imprese domestiche e nella modernizzazione dei sistemi produttivi, incidendo negativamente sulla competitività di un Paese. Peraltro, il protezionismo da solo non basterà nemmeno a ridurre le diseguaglianze interne, in assenza di politiche redistributive efficaci.
A questo scopo, è necessario che le risorse recuperate dalla tassazione con finalità redistributiva siano investite in politiche sociali e del lavoro che oltrepassino il concetto di assistenzialismo per abbracciare quello dello sviluppo di competenze e del job-matching, oltre che in formazione e istruzione di qualità a beneficio soprattutto delle fasce più povere, al fine ridurre la diseguaglianza che per certi versi conta di più: quella delle opportunità.
Fonte: Econopoly
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