La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 11 aprile 2017

Erdoğan, il referendum e altro ancora

di Fabio Salomoni
“Obiettivo: una Turchia più forte” così recita uno dei titoli che accanto alla fotografia di Recep Tayyıp Erdoğan campeggia sulla prima pagina di una corposa pubblicazione contenuta nel kit elettorale distribuito da militanti del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). Nella sacca di cotone “biologico” insieme alla pubblicazione ci sono un dépliant a colori con la foto del primo ministro Yıldırım nel quale vengono presentati i diciotto nuovi articoli della costituzione sui quali gli elettori saranno chiamati a votare il 16 aprile, e una scatola di tè, rigorosamente proveniente da Rize, capitale della regione del Mar Nero ove si concentra la produzione della bevanda nazionale ma anche città natale della famiglia del presidente Erdoğan. A consegnare il tutto schiere di donne, velate, che durante il giorno percorrono palmo a palmo il quartiere di residenza, si soffermano a parlare con le casalinghe, tessono relazioni.
La sera poi è la volta degli uomini di organizzare nelle case del quartiere riunioni per convincere gli indecisi. Questa mobilitazione dal basso, basata sull'organizzazione capillare a livello di quartiere con un ampio coinvolgimento delle donne ha costituito fin dagli albori una delle forze che hanno determinato il primo sorprendente successo elettorale di Erdoğan e del suo AKP nel 2002 e poi la lunga sequela di vittorie successive che ne ha fatto un record nella storia politica della Turchia. Dopo un inizio in sordina, da settimane la campagna per il referendum del 16 aprile in cui gli elettori turchi saranno chiamati a esprimersi sulla riforma costituzionale, già approvata dal parlamento, che di fatto comporta un passaggio da un sistema parlamentare a uno presidenziale, è ormai entrata nella sua fase più calda.
La costituzione che l’AKP vuole riformare è quella fatta scrivere ed approvare nel 1982 dalla giunta militare che nel 1980 aveva compiuto il terzo colpo di stato nella storia della repubblica. Una costituzione che mirava a ristabilire il primato dello stato sull'individuo e a restringere gli spazi di libertà e democrazia, infarcita di riferimenti nazionalisti e militaristi, tanto da far dire a un costituzionalista dell’epoca che “ il popolo turco non è tanto barbaro da meritare nel ventesimo secolo una costituzione del genere”. Dopo alcune timide riforme negli anni ’90 fu proprio il partito di Erdoğan tra il 2005 e il 2008 a operare delle riforme sostanziali sull'onda dello slancio riformatore che all'epoca prendeva forza anche dall'avvio dei negoziati di adesione all'Unione Europea. Nel 2008 poi lo stesso partito aveva dato incarico a un gruppo di stimati costituzionalisti di preparare la bozza di una nuova costituzione “civile e democratica”. L’abbandono poco più tardi di questo progetto ha coinciso di fatto con l’inizio della fine della fase riformatrice. È sufficiente sfogliare l’opuscolo propagandistico che le militanti AKP distribuiscono in questi giorni per avere una conferma della distanza con quell'epoca. Praticamente scomparsi i riferimenti alle libertà e al processo di democratizzazione, a farla da padrone l’aggettivo forte – g üçlü- associato al partito, alla nazione o al presidente, e la celebrazione della potenza ed efficienza di un presidente che la riforma metterebbe “finalmente” nella condizione in grado di risolvere tutti i problemi del paese senza gli intralci di un sistema parlamentare. Gli articoli riformati, oltre ad aumentare il numero dei parlamentari e abbassare a diciotto anni l’età minima per poter essere eletti in parlamento, sostanzialmente mettono fine al sistema parlamentare ed instaurano un sistema presidenziale dai caratteri molto peculiari. La riforma abolisce la figura del primo ministro, concentra il potere esecutivo nelle mani del capo di stato al quale affida il ruolo di capo del governo, il potere di nominare ministri e di sciogliere il parlamento; al presidente viene trasferito anche parte del potere legislativo con la possibilità di emanare decreti legge; facendo ulteriormente vacillare l’autonomia del potere giudiziario la riforma attribuisce al presidente della repubblica o ai membri del suo partito il potere di nominare un numero considerevole di membri del consiglio superiore della magistratura; infine indebolisce le possibilità di controllo delle attività presidenziali da parte del parlamento da un lato abolendo la possibilità di interrogazioni parlamentari scritte e dall'altro stabilendo che ogni azione giuridica nei confronti del presidente della repubblica debba avere l’approvazione di due terzi dei parlamentari. Un modello presidenziale sui generis nel quale la separazione dei poteri si offusca e che apre la strada al regime di un uomo solo, al quale viene lasciata la possibilità di continuare a essere iscritto al suo partito e teoricamente anche quella di essere eletto per tre legislature. Talmente sui generis che anche lo stesso Erdoğan ha ormai rinunciato a presentarlo, come faceva tempo fa, comparandolo con quello americano, per definirlo invece come assolutamente “moderno” – un termine evocativo che da sempre esercita un fascino irresistibile nel discorso politico turco­­­­ - e allo stesso tempo “locale e nazionale”. E in fondo questa combinazione di moderno e di autenticamente locale ben rappresenta il modello ideologico che da anni ispira il presidente e il suo partito. Da un lato l’efficienza e la tecnologia simboleggiate dall'imponente serie di opere infrastrutturali realizzate in questi anni: ponti e tunnel che attraversano il Bosforo, aeroporti, giganteschi progetti di trasformazione urbana, una miscela di tecnologia, efficienza e potenza. Dall'altro la produzione sempre più insistente di una narrativa fondata sul recupero di codici, simboli e riferimenti religiosi e locali che pesca nel passato ottomano e che fa leva sul mai risolto trauma della grandezza imperiale perduta, altro classico leitmotiv della destra turca. La storia ottomana fornisce poi l’ispirazione per un modello politico capace di tenere insieme questi elementi. Non è un caso che da mesi Erdoğan e il suo partito siano impegnati nell'opera di riabilitazione del sultano Abdülhamid II, nella tradizione repubblicana dipinto come incarnazione del dispotismo e da qualche tempo invece celebrato da Erdoğan come esempio di modernizzatore e allo stesso tempo difensore di un’identità islamica. Quello che Erdoğan propone adesso ai suoi elettori con il referendum del 16 aprile è in fondo un modello di “modernità alternativa”, fondato su autenticità e valori locali contrapposti a quelli occidentali.
Questo scivolamento dall'adesione a valori universali e al progetto europeo verso un ripiegamento sul locale ha sicuramente a che vedere con l’evoluzione interna del partito AKP. Il partito che vinse inaspettatamente a man bassa le elezioni del 2002 era guidato da una classe dirigente eterogenea dal punto di vista delle biografie personali e politiche. Un gruppo dirigente all'interno del quale Erdoğan svettava certo per la sua biografia di politico locale di successo e per il suo carisma personale ma che comprendeva altre figure dotate di carisma e provenienti da esperienze e culture politiche diverse. A 15 anni di distanza, di quel gruppo dirigente, a cominciare dall'ex presidente della Repubblica Abdullah Gül, e della sua eterogeneità non è rimasto più nulla. Gran parte dei suoi componenti è stata emarginata, silenziata o semplicemente si è chiamata fuori e il partito ora coincide sostanzialmente con la persona del presidente, con quella dei suoi familiari e con un insieme di figure politicamente modeste, più simili a un comitato d’affari. Da un partito che raccoglieva diversi tradizioni della destra turca, da quella religiosa a quella liberale, e anche qualcosa di più, si è passati a un partito personale, identificato con un uomo mosso dall'ambizione di arrivare al fatale appuntamento del centenario della repubblica, il 2023, spodestando il padre della patria per eccellenza, Mustafa Kemal Atatürk.
Sarebbe tuttavia incompleto attribuire l’evoluzione della politica turca solamente al carattere di un uomo e alle dinamiche interne di partito. Dietro i feroci e grossolani attacchi portati da Erdoğan e dai membri del governo all'EU e a singoli paesi europei nelle scorse settimane, alle accuse di neo-nazismo alla Germania e all'Olanda e alle lezioni di democrazia, non è difficile scorgere il risentimento di chi si è sentito tradito. L’obiettivo dell’adesione europea nei primi anni duemila ha rappresentato uno dei rari momenti in cui si è generato un ampio consenso nella società turca oltre che uno straordinario motore per il processo di democratizzazione. Tuttavia lo schiaffo ricevuto nel 2007 e 2008 dalla Francia di Sarkozy e dalla Germania della Merkel non solo ha bloccato questo processo ma anche confermato l’ambiguità dell’atteggiamento europeo verso la Turchia. Un’ambiguità per cui la Turchia è fondamentalmente considerata solo come un baluardo, prima per la minaccia sovietica, adesso per le conseguenze delle tragedie mediorientali, ma in fondo mai come un partner da prendere seriamente in considerazione. L’ultima conferma di questo atteggiamento si è avuto con la vicenda dei profughi siriani. Ignorata per anni la loro presenza in Turchia, e altrove, sebbene nel 2015 fossero già quasi tre milioni, l’Europa si è affrettata a siglare degli accordi perché continuassero a rimanere in Turchia, salvo poi tornare a ignorarli una volta constatato che non bussavano più alle porte europee. Il tutto ovviamente accompagnato dagli strali di indignazione per aver delegato “a un paese come la Turchia” il problema dei profughi. Un’indignazione che ipocritamente ignorava il fatto che il paese stava gestendo, con difficoltà e carenze certamente, un numero di profughi ampiamente superiore a quello ospitato dall'intera Europa e senza mostrare le reazioni isteriche registrate in molte opinioni pubbliche europee. Il rapporto con l’Europa tuttavia non è stato l’unico fattore internazionale che ha favorito l’involuzione del partito di Erdoğan. L’effetto delle “primavere arabe” che da un lato ha alimentato la paranoia complottista della dirigenza AKP, come si è ben visto durante le rivolte di Gezi Park nel 2013, e dall'altro sull'onda dei successi dei partiti islamici in Egitto e Tunisia ha incoraggiato Erdoğan ad abbracciare un discorso identitario “orientale” e “islamico”. Infine l’aria del tempo intrisa delle sirene che invocano un rapporto diretto tra leader e masse e pronta a sacrificare libertà sull'altare della sicurezza e dell’efficienza ha trovato facile ascolto in una cultura politica da sempre sensibile al fascino dell’autoritarismo.
Proprio le contraddizioni e i paradossi della cultura e del sistema politico turco rappresentano il terzo elemento che ha contribuito a generare la situazione attuale. Il punto di svolta è rappresentato dalle elezioni politiche del giugno 2015. Dopo una lunga serie di successi elettorali, in quell'occasione per la prima volta l’AKP ha dovuto registrare una decisa battuta di arresto, perdendo quasi il 10% dei voti rispetto alle elezioni precedenti. Ancor più rilevante lo storico successo del partito filo-curdo HDP che è riuscito a conseguire un risultato di portata epocale, impossibile anche solo da immaginare pochi anni fa, mandando in parlamento 80 deputati e divenendo il terzo partito del paese. Una occasione per bilanciare le tendenze egemoniche di un partito solo al potere da 13 anni e per ridisegnare in senso pluralistico la vita politica del paese e rilanciare una nuova stagione di riforme. E invece nessuno degli attori coinvolti ha superato l’esame. Erdoğan e il suo partito, per nulla disposti a condividere un potere di cui hanno avuto il monopolio assoluto per tredici anni, hanno fin da subito mostrato di non aver nessuna intenzione di accettare i risultati delle urne. Il partito nazionalista MHP per puri interessi clientelari e il sedicente socialdemocratico Partito Repubblicano del Popolo – CHP - per le contraddizioni insite nella sua storia politica, si sono dimostrati incapaci di costruire una convincente coalizione alternativa. Il partito HDP dal canto suo, nonostante il trionfo elettorale, ben presto è stato neutralizzato dalla concomitante azione di diversi fattori: in primo luogo dalle sue contraddizioni interne che lo hanno portato inspiegabilmente a sostenere un’insurrezione urbana scatenata in nome dell’autonomia nelle strade di alcune città curde poche settimane dopo le elezioni, secondariamente dal risentimento di Erdoğan per essersi trovato di fronte un inaspettato rivale e non ultimo il fastidio del PKK, de facto un attore della vita politica turca, che più volte ha tenuto a minimizzare la portata del successo politico dell’HDP per il timore di vedere emarginato il suo ruolo. E il risultato di questa combinazione è stato esplosivo, facendo divampare di nuovo i combattimenti tra lo stato e il PPK. Una guerra che diversamente dal passato non ha avuto come teatro le montagne ma i centri urbani della Turchia orientale e che ha prodotto una lunga scia di vittime, distruzioni e sfollati, oltre che episodi di brutalità commesse dalle forze di sicurezza e anche dal PKK, responsabile tra l’altro, di una catena di attentati con autobomba che hanno provocato decine di vittime, tra cui molti civili, anche ad Ankara e Istanbul. A farne le spese la tregua durata quattro anni e i già traballanti negoziati intavolati per arrivare a una soluzione di un conflitto pluridecennale. A queste violenze si sono aggiunti da subito gli attentati sanguinosi rivendicati dall’ISIS. In questo clima plumbeo nuove elezioni nel novembre 2015 hanno restituito al partito di Erdoğan quel 10% di voti persi a giugno e il suo ruolo di signore unico della politica turca riportandolo al 49,5% dei consensi.
Il secondo momento di svolta è rappresentato dal tentato colpo di stato della notte del 15 luglio 2016. Capitolo oscuro, carico di punti interrogativi, che una commissione parlamentare sembra aver voglia di chiudere in tutta fretta, e che lascia solamente alcune certezze: qualche centinaio di vittime innalzate dalla retorica ufficiale al rango di martiri della democrazia ma destinate a essere dimenticate in fretta, la sensazione che ci siano segmenti della società che continuano a vedere l’intervento dei militari come soluzione per le difficoltà della democrazia e soprattutto l’opportunità per Erdoğan di sbarazzarsi definitivamente di Fethullah Gülen e del suo complesso e ambiguo movimento, designato come unico responsabile del fallito golpe. Pedina fondamentale per decretare il successo del progetto politico dell’AKP e garantirgli rispettabilità sul piano internazionale, il movimento di Gülen si è poi con il tempo trasformato in un pericoloso rivale dando vita a un conflitto di potere con l’AKP senza esclusione di colpi. La notte del 15 luglio ha quindi fornito al partito di Erdoğan il pretesto per la resa dei conti finale e pesantissima è stata la scure che si è abbattuta indiscriminatamente sui Gülenisti o presunti tali: 136.000 persone epurate dall'amministrazione pubblica - insegnanti, docenti universitari, giudici, poliziotti, militari -, 43.000 arresti, 100.000 indagati, chiuse associazioni, giornali, università legate al movimento di Gülen. Tuttavia ben presto sotto il maglio della repressione non sono finiti solamente coloro che erano sospettati di avere una qualche relazione con il “diavolo della Pennsylvania” ma anche esponenti dell’opposizione, intellettuali, giornalisti, studenti. Tra loro anche tredici deputati dell’HDP finiti in carcere dopo che il parlamento ha approvato la sospensione della loro immunità parlamentare, anche con i voti di deputati del “socialdemocratico” CHP, ennesimo esempio questo dei paradossi della politica turca. Perfetta sintesi del carattere paradossale assunto dalla repressione in particolare contro i giornalisti è il caso di Ahmet Şık. Coraggioso rappresentante del giornalismo d’inchiesta, Şık viene arrestato una prima volta nel 2011 insieme al collega Nedim Şener poco dopo aver terminato di scrivere un libro nel quale veniva documentata la massiccia infiltrazione di elementi gülenisti nella polizia. Rilasciato un anno dopo, nel dicembre 2016 Şık viene di nuovo arrestato questa volta con l’accusa di aver fatto propaganda per un’organizzazione terrorista, leggasi PKK, ed è tutt’ora in carcere.
Tuttavia, nonostante il paese viva da più di nove mesi sotto lo stato d’emergenza, la progressiva riduzione degli spazi di espressione del dissenso, la instancabile dedizione dei militanti dell’AKP, la onnipresente voce e figura del presidente Erdoğan sugli schermi televisivi e per le strade del paese e una campagna per il No che arranca tra molti ostacoli e qualche contraddizione, il risultato del referendum appare tutt'altro che scontato. Mai come in questa campagna referendaria si è assistito a un vortice di sondaggi di opinione e dati statistici. Al netto della prudenza necessaria nel considerare questi sondaggi, su due aspetti pare esserci un consenso di fondo: lo scarto minimo tra i voti del no e quelli del sì e la presenza di un'ampia fascia di elettori indecisi. A conferma di come il referendum non si annunci come una passeggiata trionfale, anche il cambio di atteggiamento da parte di Erdoğan e dei suoi che negli ultimi giorni hanno abbassato i toni e strizzato l’occhio all’elettorato curdo, prevedibilmente schierato in maggioranza per il no. Tuttavia il vero ago della bilancia appare rappresentato dagli elettori dell'AKP e del MHP. Il nazionalista MHP, che in parlamento ha approvato con l'AKP la riforma costituzionale e che porta in dote il 13% dei voti, appare in realtà profondamente lacerato al suo interno. Il suo segretario Bahçeli è schierato apertamente per il sì. Tuttavia da tempo il suo potere è minacciato da un’agguerrita rivale, Meral Akşener, una donna che nonostante le intimidazioni e gli ostacoli messi in atto dalla dirigenza si è apertamente schierata per il no e rischia di portare con sé una fetta consistente dell’elettorato del partito. L’incognita principale è tuttavia rappresentata dagli elettori dell’AKP, in particolare quel 10% che già nel giugno del 2015 aveva manifestato il suo malumore negando il suo voto al partito. Il clima di contrapposizione frontale e l’individuazione di un nemico interno sono una caratteristica costante delle campagne elettorali dell'AKP. Tuttavia nell'attuale frangente questa contrapposizione non solo ha raggiunto vertici particolarmente aspri travalicando i confini nazionali e lasciando la Turchia in una sorta di isolamento internazionale, ma coincide anche con un momento in cui l’economia dopo anni di crescita record mostra evidenti segni di fragilità. È soprattutto alla fascia di elettorato più pragmatico e meno propenso a scegliere un voto identitario per schieramenti che sembra legato l’esito di un referendum che, confezionato come un plebiscito sulla figura di Erdoğan, parafrasando uno slogan dell’AKP ha ormai assunto i caratteri di uno scontro decisivo “ per la democrazia vera, non per quella a parole”.

Fonte: alfabeta2 

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