La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 9 aprile 2017

John Bellamy Foster, cinque risposte su marxismo ed ecologia

Il marxismo può rafforzare la nostra comprensione della crisi ecologica? L’autore di Marx’s Ecology, John Bellamy Foster, replica alle critiche su temi quali frattura metabolica, sviluppo umano sostenibile, decrescita, crescita demografica e industrialismo. Il sito indiano Ecologize ha recentemente pubblicato la prefazione scritta da John Bellamy Foster al libro di Ian Angus, Facing the Anthropocene. Nel commentare l’articolo di Foster, il giornalista ed attivista Saral Sarkar, il quale definisce il proprio punto di vista come eco-socialista, solleva alcuni interrogativi che sfidano l’utilità dell’analisi marxista ai fini della comprensione della crisi ecologica globale. La replica di Foster è stata pubblicata da Ecologize il 26 marzo. Lo scambio, qui riproposto, affronta importanti questioni circa le prospettive marxiste sulla crisi ecologica globale.
ALCUNE DOMANDE PER JOHN BELLAMY FOSTER
di Saral Sarkar

Il professor Bellamy Foster è un rinomato studioso. E se il suo lavoro ha anche lo scopo di servire le cause nelle quali è impegnato, di certo vorrà rispondere alle seguenti domande/commenti di un lettore di quest’articolo:
Quale utilità può avere sostituire la nozione comunemente usata e ben comprensibile di “grande crisi ecologica” con quella marxiana, poco conosciuta e di difficile comprensione, di “frattura metabolica nel rapporto tra l’uomo e la terra”?
Vi sono alcune altre dichiarazioni/frasi che suscitano commenti critici: ad esempio, “creare un mondo di sviluppo umano sostenibile…”. Questo in particolare mi ha fatto sgranare gli occhi. “Sviluppo sostenibile”, sin dagli anni Ottanta, ha rappresentato una parola d’ordine dell’economia dello sviluppo capitalista. Ma il concetto non indicava niente di nuovo. Ovviamente, Bellamy Foster ricorre all’attributo aggiuntivo “umano”. Tuttavia, “sviluppo umano” è anch’esso un concetto in circolazione da lungo tempo. In parole povere, cos’altro significa se non crescita economica sostenibile?
Una semplice domanda: Bellamy Foster ritiene o meno che l’eco-socialismo dovrebbe avere come obiettivo immediato l’avvio di una politica di decrescita, una contrazione dell’economia nonché della popolazione? E come obiettivo di lungo termine un’economia socialista di stato stazionario ad un basso livello?
Sappiamo quanta devastazione ecologica hanno causato l’Unione Sovietica ed altri paesi “socialisti” dell’europa dell’est. Non è dunque corretto, a mio modo di vedere, affermare che “è il capitalismo… che rappresenta la nostra “casa in fiamme”. Non sarebbe più accurato, perché più realistico, sostenere che l’industrialismo costituisce da ben due secoli la nostra casa in fiamme, essendo capitalismo e “socialismo” nient’altro che due varianti dello stesso modo di vivere industriale?

CONTRO L’ESPROPRIAZIONE DEL PIANETA: UNA REPLICA A SARAL SARKAR
di John Bellamy Foster

Apprezzo molto gli interrogativi sollevati da Saral Sarkar riguardo la mia prefazione a Facing the Anthropocene di Ian Angus. Cercherò di rispondere alle sue domande il più brevemente possibile e nell’ordine in cui sono state poste. Per maggior comodità del lettore ho numerato le mie risposte.
(1) In alcun modo il concetto espresso da Marx di “una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale” (o frattura metabolica) [1], così come esso viene utilizzato oggi dagli ecosocialisti, può essere inteso quale sostituto della nozione di crisi ecologica globale. Lo sviluppo da parte di Marx di un approccio sistemico socio-ecologico (radicato nel concetto di metabolismo) è frutto dei dibattiti naturali-scientifici della sua epoca e prefigura l’emergere della nozione di ecosistema e della più tarda analisi del Sistema Terra. Esso è strettamente connesso alla nostra attuale comprensione scientifica.
Così, un articolo apparso su Scientfic Reports nel marzo 2017 fa riferimento alla “frattura metabolica”, citando Il capitale di Marx, nel tentativo di affrontare alcuni dei nostri problemi ecologici ed umani contemporanei. Analogamente, gli scienziati dell’Anthropocene Working Group definiscono l’Antropocene come una “frattura antropogenica” nel Sistema Terra (o metabolismo della Terra). Di fatto, lungi dal rimpiazzare la nozione di crisi ecologica globale, il concetto marxiano di frattura metabolica può essere visto come un’ulteriore chiarificazione della nostra comprensione di questa vera e propria crisi, in particolare per quanto riguarda le interconnessioni dialettiche tra i suoi aspetti sociali ed ecologici.
(2) Il concetto di “sviluppo umano sostenibile” è stato sottolineato, in tutta la sua importanza, nell’ormai classico studio di Paul Barkett “Marx’s Vision of Sustainable Human Development“, pubblicato nell’ottobre 2005 sulla Monthly Review. Nel terzo volume del Capitale, Marx presenta quella che, senza dubbio, costituisce la più radicale concezione di sostenibilità mai esposta, affermando che gli individui non sono proprietari della terra, e come ciò valga per tutte le persone in ogni parte del mondo. Dunque, essa è stata loro affidata perché la conservino, o rendano addirittura migliore, per le future generazioni, come dei buoni padri di famiglia. Egli definisce il socialismo come la formazione sociale nella quale i produttori associati regolano razionalmente il proprio ricambio organico con la terra, al fine di promuovere i più autentici bisogni umani, economizzando al contempo il dispendio di energia.
Per tanto, è certamente possibile, sulla base del materialismo storico, sviluppare una concezione rivoluzionaria di “sviluppo umano sostenibile” – tale da essere radicalmente opposta allo “sviluppo sostenibile”, così come concepito dall’economia neoclassica. Sviluppo umano sostenibile, quindi, non va inteso nel senso di crescita economica sostenibile – una nozione che dal punto di vista del Sistema Terra rappresenta una contradictio in adiecto.
Sarebbe indubbiamente un errore fatale, per la sinistra, disarmarsi dal punto di vista intellettuale abbandonando concetti come sostenibilità ed ecologia – nonché, eguaglianza, democrazia e libertà – semplicemente perché l’ideologia dominante se n’è appropriata distorcendoli in vario modo. Noi dobbiamo combattere per delle prospettive che siano autonome.
(3) La decrescita, nella forma in cui viene abitualmente presentata oggi, non può costituire il principale obiettivo organizzativo de movimenti ecosocialisti, dato che non affronta né l’immediata minaccia ecologica né, tanto meno, la necessità di un cambiamento strutturale nel sistema capitalistico. Considerata l’emergenza planetaria, l’obiettivo primario del movimento ecologico, al momento, dovrebbe essere una mitigazione del cambiamento climatico, il che non può essere separato da tutta una serie di altre problematiche sociali ed ecologiche.
Nell’antropocene, ci troviamo a dover fronteggiare l’eventualità, laddove la società continuasse a seguire la strada per cui gli affari devono comunque andare avanti, della fine della civilizzazione (nel senso di società umana organizzata) e, potenzialmente, persino della stessa specie umana. Ma ben prima, centinaia di milioni di persone saranno colpite da crescenti siccità, innalzamento del livello dei mari ed eventi meteorologici estremi di ogni sorta.
Tutto ciò richiede un cambiamento radicale “nell’egemonia politica ed economica”, per riprendere le parole di Kevin Anderson del Tyndall Centre for Climate Change. Anderson, inoltre, insiste per un’immediata moratoria sulla crescita economica e su ogni tentativo di stimolarla a scapito dell’ambiente. La conservazione è necessaria, così come un cambiamento nell’utilizzo delle risorse, delle tecnologie e dei valori d’uso. I combustibili fossili vanno mantenuti nel suolo.
Ognuno di questi punti è in linea con quanto sostenuto dai teorici della decrescita. Tuttavia, l’intera nozione di decrescita è stata distorta dal fatto che essa viene generalmente usata per rovesciare il concetto dominante di crescita economica sulla sua testa; pronunciandosi semplicemente per un ridimensionamento del sistema, o per una sua inversione, senza impegnarsi in una critica integrale del capitalismo o nella promozione dei rivoluzionari cambiamenti strutturali necessari per affrontarlo. Non è in discussione che ci si debba orientare verso un’economia dello stato stazionario, nel senso inteso da Herman Daly, ovvero senza formazione di capitale netto. Il peso dell’economia nei paesi ricchi del mondo capitalistico avanzato deve essere ridotto.
Ma non dobbiamo commettere l’errore di considerare tutto ciò come una mera questione di scala, come fanno generalmente i teorici della decrescita. L’intera struttura del sistema capitalistico va superata e sostituita da una società basata sull’eguaglianza sostanziale e sulla sostenibilità ecologica. L’incapacità di affrontare il cambiamento strutturale rivoluzionario costituisce la principale debolezza della prospettiva decrescista, la quale non è ancora sfuggita all’ideologia del capitale. Di conseguenza, i principali pensatori della decrescita come Serge Latouche insistono nell’affermare che essa, nei loro termini, è in qualche modo compatibile col capitalismo.
(4) È vero, a parità di tutti gli altri fattori, l’incremento demografico comporta ulteriori oneri a carico del pianeta. Ma delle rozze prospettive malthusiane non sono di alcuna utilità nell’affrontare le problematiche ecologiche. È l’accumulazione capitalistica, non la crescita della popolazione, a rappresentare il principale fattore del mutamento climatico. Sebbene le emissioni di CO2 dovrebbero cessare ovunque nei prossimi decenni – raggiungendo, per esempio, l’obiettivo di zero emissioni entro il 2050 – le maggiori riduzioni dovrebbero necessariamente verificarsi nei paesi ricchi, dove il loro livelo pro capite è più elevato.
È appena il caso di sottolineare che i paesi ricchi, i quali vantano le più alte emissioni pro capite di CO2, non sono quelli con i più alti tassi di crescita demografica. In effetti, i paesi più poveri e con i più alti tassi di crescita della popolazione sono tendenzialmente quelli con il minore impatto pro capite sul clima.
La crescita demografica ne capitalismo è una variabile dipendente. Dipendente dalle condizioni del capitalismo e dell’imperialismo in determinato stato o regione, nonché da fattori quali l’occupazione, la salute, l’educazione, i diritti delle donne ecc. In proposito si può consultare l’eccellente libro di Ian Angus e Simon Butler, To Many People?.
(5) La questione se sia l’industrialismo, invece che il capitalismo, all’origine della nostra “casa in fiamme”, è assai bizzarra da porre per qualcuno che si richiami all’ecosocialismo. Sarkal argomenta che poiché la stessa Unione Sovietica ha danneggiato grandemente il proprio ambiente, ed essendo essa industrializzata ma non capitalistica, dovremmo abbandonare l’analisi delle formazioni sociali specifiche, come il capitalismo (o quello che una volta si definiva “socialismo realmente esistente), ed attribuire l’intero problema alla più generale ed astratta nozione di industrializzazione.
La stessa logica, se spinta all’estremo, potrebbe condurre ad affermare che, avendo anche le società preindustriali distrutto il loro ambiente, l’industrializzazione non rappresenta una spiegazione sufficiente. Dovremmo per tanto ricondurre il problema ambientale alla società umana in generale. E ancora, dal momento che gli esseri umani sono animali sociali, la società stessa potrebbe essere considerata una spiegazione inadeguata, per cui dovremmo attribuire il problema ecologico alla mera esistenza degli esseri umani. Ergo, semplicemente vi sono troppe persone al mondo.
Un simile approccio non è di grande aiuto in quanto rimuove tutti gli elementi storici fondamentali della problematica in questione, oltreché la nostra capacità di agire razionalmente. Ad essere fuori questione è che il capitalismo è un sistema dedito, prima di tutto, all’accumulazione di capitale. Come scrive Marx, l’unica legge conosciuta dal capitalista afferma “Avanti! Avanti!” (crescere e ancora crescere), vale a dire, D-M-D’… D-M-D”… D-M-D”’, all’infinito. Nel suo sempre più irrazionale tentativo di espandersi, il capitale (le multinazionali capitalistiche) mercificano tutto ciò che esiste, mettendo in pericolo l’umanità e l’intero pianeta. In meno di una generazione, seguendo la logica per cui gli affari devono andare avanti comunque, tale processo ci spingerà oltre il baratro climatico.
Da tutto ciò deriva una sola conclusione possibile: Cambiamento sistemico, non cambiamento climatico!

Note
Concetto espresso da Marx nel terzo volume del Capitale, in conclusione del capitolo sull’origine della rendita fondiaria capitalistica. Karl Marx, Il Capitale, Libro terzo, Einaudi, 1975, p. 1093

John Bellamy Foster è direttore della Monthly Review e docente di sociologia presso l’Università dell’Oregon. Si è occupato ampiamente di economia politica affermandosi come uno dei maggiori esperti di ecologia. Tra le sue opere principali, Marx’s Ecology: Materialism and Nature (2000), The Great Financial Crisis: Causes and Consequences (con Fred Magdoff, 2009), The Ecological Rift: Capitalism’s War on the Earth (con Brett Clark e Richard York, 2010), e The Theory of Monopoly Capitalism: An Elaboration of Marxian Political Economy (New Edition, 2014).

Link all’articolo originale in inglese Climate & Capitalism
Fonte: traduzionimarxiste.wordpress.com 

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