di Emanuele Giordana
Rana Plaza, quattro anni dopo. Il 24 aprile del 2013, una settimana prima della Festa internazionale del lavoro, un edifico di cinque piani crollava alla periferia industriale di Dacca, Bangladesh. 1.134 morti e 2mila feriti. L’edificio ospitava cinque fabbriche di abbigliamento che producevano per marchi europei e nordamericani, alcuni dei quali fecero di tutto per non essere coinvolti nel crollo e dunque nei risarcimenti. Non è certo stato questo l’unico «incidente» (fu preceduto dagli incendi nella fabbrica Ali Enterprises in Pakistan e alla Tazreen Fashions in Bangladesh, che uccisero più di 350 persone) ma il dossier Rana Plaza, anche se con il pagamento di un prezzo altissimo in vite umane, ha però segnato un punto di svolta.
UN PUNTO DI SVOLTA, deve essere ben chiaro, dovuto alla resistenza delle famiglie dei lavoratori di quelle fabbriche e a un’attività sindacale locale fortissima quanto rischiosa. Una resistenza e una lotta sindacale che forse non avrebbero raggiunto i loro obiettivi se non fossero state accompagnate da campagne internazionali e dalla solidarietà di altri lavoratori, attivisti, comuni cittadini.
Alcuni programmi innovativi sono stati sviluppati per evitare nuovi disastri e per garantire i risarcimenti alle famiglie. Il primo riguarda l’Accordo sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi che è un programma quinquennale, giuridicamente vincolante, col quale i firmatari si impegnano a migliorare la sicurezza delle fabbriche con cui lavorano. Lanciato dopo un mese dal crollo e non senza una forte pressione internazionale sui marchi, dopo sei mesi aveva messo insieme più di 200 firmatari.
L’ACCORDO per il risarcimento delle vittime del disastro ha terminato il suo percorso nel 2015 dopo una battaglia durata due anni per ricevere il denaro e per l’istituzione di un fondo medico fiduciario attraverso il quale sostenere i sopravvissuti feriti. Ma, dicono alla Campagna Abiti Puliti – la sezione italiana della Rete internazionale Clean Clothes – «questi risultati hanno bisogno di essere costantemente difesi e sviluppati, non erosi e invertiti», perché – sostengono – le promesse di un cambiamento strutturale «non sono ancora divenute realtà: restano i problemi sistematici di una concorrenza spietata, bassi salari, repressione sindacale, un diritto del lavoro debole e l’impunità legale».
È ANCHE PER QUESTO che la Campagna invita le aziende dell’abbigliamento e delle calzature che non l’hanno ancora fatto a unirsi alle 17 che già sono in linea con una nuova importante iniziativa per la trasparenza, che impegna i marchi a pubblicare le informazioni che permettano a lavoratori e consumatori di scoprire dove e come vengono realizzati i loro prodotti.
UN RAPPORTO DI 40 PAGINE intitolato Segui il filo chiede alle aziende di adottare un modello che garantisca trasparenza nella catena di fornitura dell’abbigliamento e delle calzature. «Le aziende che vi aderiscono – dicono gli attivisti di Abiti Puliti (parte della coalizione composta da Clean Clothes Campaign, Human Rights Watch, IndustriALL Global Union, International Corporate Accountability Roundtable, International Labor Rights Forum, International Trade Union Confederation, Maquila Solidarity Network, UNI Global Union e Worker Rights Consortium – si impegnano a pubblicare informazioni che identifichino le fabbriche che realizzano i loro prodotti, rimuovendo un ostacolo fondamentale per sradicare pratiche di lavoro abusive e aiutando a prevenire disastri come quello del Rana Plaza».
DELLE 72 AZIENDE CONTATTATE, 17 saranno perfettamente in linea con gli standard dell’iniziativa entro il 31 dicembre 2017. «La trasparenza è uno strumento molto potente per promuovere la responsabilità di impresa verso i lavoratori del tessile lungo tutta la catena di fornitura e permette alle organizzazioni e ai lavoratori di avvertire le aziende riguardo agli abusi nella fabbriche fornitrici. Facilita il ricorso più veloce a meccanismi di reclamo per abusi dei diritti umani». Ed è anche un modo per rendere più responsabili i consumatori (alcune aziende hanno dichiarato che rivelare le informazioni potrebbe svantaggiarle commercialmente).
E PERCHÉ I CONSUMATORI sappiano ecco la lista dei refrattari: American Eagle Outfitters, Canadian Tire, Carrefour, Desigual, Dick’s Sporting Goods, Foot Locker, Hugo Boss, KiK, Mango, Morrison’s, Primark, Sainsbury’s, The Children’s Place e Walmart non si sono impegnate a pubblicare nulla.
Inditex si è rifiutata di pubblicare le informazioni, ma mette a disposizione i dati. Armani, Carter’s, Forever 21, Matalan, Ralph Lauren Corporation, Rip Curl, River Island, Shop Direct, Sports Direct e Urban Outfitters non hanno risposto alla coalizione e non pubblicano alcuna informazione.
Fonte: Il manifesto
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