di Anna Curcio
“Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato”. Questo l’esergo che Silvia Federici sceglie per un testo fondativo della campagna internazionale Salario al lavoro domestico1. Erano gli anni Settanta e il femminismo marxista era impegnato in un duro confronto critico con Marx, per portare in primo piano la produzione di valore del lavoro riproduttivo. Si intendeva in particolare denunciare la gratuità del lavoro domestico e della cura, svelando le forme intrinseche dello sfruttamento del lavoro delle donne2. La suggestione di Federici, tutt’altro che datata, ritorna pressoché intatta nel presente, mentre il lavoro gratuito dilaga imponendosi quale nuova frontiera dell’accumulazione capitalistica. Stage, tirocini, esperienze di praticantato, straordinari non pagati, volontariato, le innumerevoli forme di gratuità del lavoro intellettuale e artistico e ogni altra sorta di lavoro non retribuito fino alla lavorizzazione del consumo (si pensi soprattutto alle attività che quotidianamente svolgiamo nel web 2.0) stanno ridisegnando la geografia del lavoro contemporaneo.
E il lavoro in quanto tale, sganciato dal rapporto salariale, diventa un atto d’amore. È precisamente un atto d’amore quello che oggi il capitale domanda quando chiede di lavorare senza il compenso di un salario, proprio come ha storicamente chiesto alle donne di svolgere gratuitamente e per amore la cura e il lavoro domestico. Provando a riflettere in parallelo tra la gratuità della riproduzione (naturalizzata al ruolo femminile) e le più recenti esperienze di desalarizzazione del lavoro, queste brevi note attingono dall’archivio del femminismo marxista, per leggere le trasformazioni produttive e del lavoro in atto, svelarne il contenuto mistificatorio, immaginare i (possibili) percorsi di lotta e le strategie di resistenze alle forme dell’accumulazione capitalistica nella crisi. Perché se, data l’iniqua redistribuzione del plusvalore, il lavoro è sempre sfruttamento, il lavoro fuori dal rapporto salariale finisce per rassomigliare alla schiavitù (benché il non essere coattivo ne costituisce una importante differenza) che si sa, è un formidabile spazio di accumulazione.
E il lavoro in quanto tale, sganciato dal rapporto salariale, diventa un atto d’amore. È precisamente un atto d’amore quello che oggi il capitale domanda quando chiede di lavorare senza il compenso di un salario, proprio come ha storicamente chiesto alle donne di svolgere gratuitamente e per amore la cura e il lavoro domestico. Provando a riflettere in parallelo tra la gratuità della riproduzione (naturalizzata al ruolo femminile) e le più recenti esperienze di desalarizzazione del lavoro, queste brevi note attingono dall’archivio del femminismo marxista, per leggere le trasformazioni produttive e del lavoro in atto, svelarne il contenuto mistificatorio, immaginare i (possibili) percorsi di lotta e le strategie di resistenze alle forme dell’accumulazione capitalistica nella crisi. Perché se, data l’iniqua redistribuzione del plusvalore, il lavoro è sempre sfruttamento, il lavoro fuori dal rapporto salariale finisce per rassomigliare alla schiavitù (benché il non essere coattivo ne costituisce una importante differenza) che si sa, è un formidabile spazio di accumulazione.
Questo scritto, nel contesto della perdurante crisi del neoliberismo, tratteggia dapprima le forme dell’accumulazione contemporanea considerando i dispositivi di cattura del lavoro (§§ 1 e 2) per riflettere poi sulla disposizione soggettiva e sui possibili spazi di resistenza da aprire e coltivare; ovvero con quali armi combattere il dilagare del lavoro gratuito (§ 3).
Fonte: commonware.org
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