La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 9 aprile 2017

All’origine del lavoro freelance. Intervista a Sergio Bologna

Intervista a Sergio Bologna di Roberto Ciccarelli 
«La generazione del ’77 era radicalmente diversa da quella del ’68 – racconta Sergio Bologna, storico del movimento operaio, teorico del lavoro autonomo e freelance, confondatore della rivista «Primo Maggio» tra i punti di riferimento del movimento del ’77 – Quella del ’68 era legata alle simbologie tradizionali del movimento operaio, alla bandiera rossa, quella del ’77 era senza bandiere. I giovani del ’68 hanno cercato un’alleanza con la classe operaia e l’hanno praticata. I giovani del ’77 vedevano nella fabbrica non un luogo dell’emancipazione attraverso la solidarietà, ma un luogo di sofferenza da cui fuggire. Il post-fordismo in Italia è nato dal basso, dalla spinta di coloro che non volevano essere salariati, a loro andava bene essere precari. Oggi il precariato è cambiato di senso ed è diventato una condanna».
L’impatto tra il movimento del ’77 e la cultura social-comunista è stato drammatico.C’era qualcosa in comune allora?
"La capacità analitica di individuare la scomposizione della fabbrica capitalistica e le nuove dinamiche dei processi produttivi. Nel movimento c’era la capacità di comprendere l’esternalizzazione, le reti di subappalto, la nascita dei distretti industriali. In quello operaio esistevano persone come Trentin o Garavini che avevano capacità di analisi e previsione su queste dinamiche. Il loro approccio fu cancellato dalle politiche dell’emergenza. Al Pci non interessava capire cosa accadeva nella società, importava l’ordine sociale. Per decenni sindacati e partiti sono stati incapaci di capire le caratteristiche del lavoro post-fordista. Sono ancora inchiodati a una visione del posto di lavoro a tempo indeterminato come unico elemento per definire le politiche sociali. È stata persa la dote culturale del pensiero critico perché l’ideologia capitalistica è diventata il pensiero unico."
Il ’77 ha portato, tra l’altro, alla formazione del «lavoro autonomo di seconda generazione». In cosa consiste?
"Fino al ’77 il lavoro autonomo era concentrato in agricoltura e nel commercio. In 40 anni è avvenuta una mutazione che ha portato a una seconda generazione legata all’esternalizzazione dell’industria e ai processi, alle tecnologie dell’economia della conoscenza. Oggi esistono tentativi di organizzare rappresentanze sindacali del lavoro autonomo. Negli Stati Uniti sono molto veloci. La Freelancers Union ha raggiunto i 350 mila soci. In Italia si procede con molta lentezza. Con Acta registriamo ancora molta resistenza ad associarsi. I freelance hanno interiorizzato un’ideologia individualista che è mortale. Persino in certi coworking quando proponiamo di parlare di diritti storcono il naso e magari accolgono a braccia aperte sedicenti guru che t’insegnano come devi soffiarti il naso per essere competitivo. Malgrado questo in Italia siamo riusciti a raggiungere certi obbiettivi: l’abbassamento dell’aliquota previdenziale Inps dal 27% al 25%; i diritti per malattia e maternità, norme contro il ritardo dei pagamenti. Il Ddl lavoro autonomo, ora in parlamento, stabilisce che la partita Iva è un lavoratore, non un’impresa. Qualcosa sta cambiando."
Qual è il ruolo del conflitto per cambiare la mentalità dominante?
"Il tramonto della classe operaia tradizionale ha portato alla fine della cultura del conflitto sul lavoro. Per questo la reinvenzione del conflitto è un tema cruciale. Avere sperimentato nuove forme di protesta è stato fondamentale, tweet bombing, flash mob, sia usando i social che facendosi vedere in piazza a viso aperto. Per ottenere risultati bisogna alzare la voce e porsi in maniera antagonista."
Luca Ricolfi parla della «terza società» con argomentazioni simili a quelle di Asor Rosa che nel ’77 parlava delle «due società». È d’accordo?
"Quello su cui hanno ragione è che il sistema capitalistico e finanziario produce sempre maggiore diseguaglianza ma non possiamo parlare solo di diseguaglianze. Dobbiamo concentrarci sulla frammentazione del ceto medio e sulla scomposizione della forza lavoro. Constatare la disuguglianza non è certo difficile, capire cosa succede nella testa della gente per spingerla a coalizzarsi è molto più difficile, ma anche assai più utile."
Cosa emerge da questa scomposizione?
"Una vastissima componente della forza lavoro che ondeggia tra diverse condizioni lavorative: indipendente, dipendente, precario, disoccupato. Indipendente in tanti modi, dipendente in tanti modi, precario in tanti modi. Si passa dall’una condizione all’altra in un percorso di vita che rende difficile un’identità di status. La difficoltà di trovare un’identità si riflette sul piano politico. Una volta i piani erano simmetrici, ora sono asimmetrici. La classe operaia votava a sinistra, i ceti medi e imprenditoriali Dc. I comportamenti elettorali sono erratici, non rispondono a una cultura politica ma a sentimenti passeggeri o frustrazioni."
Esiste una soluzione politica oltre il populismo?
"Il termine populismo non spiega nulla. Il vocabolario della sinistra è pieno di questi termini passepartout che rispecchiano solo l’incapacità di capire il nuovo. Proviamo a tradurlo in termini concreti in «rifiuto della globalizzazione». Perché, non ci sono mille buoni motivi per diffidare della globalizzazione? Allora populismo acquista il significato di «reazione di difesa dei perdenti della globalizzazione». Dunque cosa possiamo fare perché possano difendersi meglio? Non vedo una forza in grado di contrastare le tendenze verso la disgregazione dell’Europa e comportamenti fascistoidi. Men che meno in quell’area politica che si definisce di «sinistra». Tuttavia, qualora dovesse nascere una simile forza, non potrà farlo che sui valori che costituivano una volta l’essenza della «sinistra»."

Fonte: Il manifesto 

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