di Salar Mohandesi
Una delle storie politiche più significative di quest'ultimo anno è l'improvvisa ascesa di uno sconosciuto senatore settantaquattrenne del Vermont, autoproclamatosi “socialista democratico”. È difficile pensare che Bernie Sanders possa vincere le primarie del Partito Democratico, ma nel frattempo la sua corsa alla presidenza ha cambiato in maniera radicale, e forse irreversibile, lo scenario politico degli Stati Uniti. A questo punto, la domanda che i socialisti devono porsi non è se supportare o meno la campagna di Sanders; bisogna invece chiedersi se e quali opportunità d’azione politica siano emerse, e in che modo queste opportunità possano essere afferrate per portare avanti delle politiche rivoluzionarie. Per rispondere a queste questioni dobbiamo prima capire esattamente come Bernie abbia cambiato la situazione politica degli Stati Uniti.
La campagna di Sanders non è sorta dal nulla. Tutti i movimenti prendono vita entro un più ampio sistema di lotte, ed è proprio la complessità degli intrecci e delle sovrapposizioni tra i recenti movimenti sociali, ad aver reso possibile la sua campagna. Senza Occupy, Black Lives Matter, Fight for 15, le mobilitazioni di insegnanti, infermieri, migranti, e senza le tante altre lotte estese sul territorio statunitense, non ci sarebbe mai stato un Bernie Sanders. Il candidato democratico ha infatti beneficiato enormemente del duro lavoro messo in campo nelle lotte che hanno preceduto l’inizio della sua campagna. Sanders ha potuto fare affidamento su reti già esistenti per reclutare una miriade di volontari. Allo stesso modo – sia ciò un bene o un male – ha adottato una buona parte del linguaggio politico di questi movimenti.
È importante notare che Sanders, per quanto abbia voluto farsi portavoce di questi movimenti, non ha voluto sussumerli, come molti socialisti avevano temuto. La sua campagna non ha infatti disinnescato né tentato di arginare le idee più radicali, ma anzi le ha aiutate a proliferare. Gli attivisti radicali, molti dei quali si sono spesso mostrati avversi non solo nei confronti della sua campagna, ma più in generale verso il processo elettorale, non solo hanno forzato Sanders sempre più a sinistra, ma lo hanno costretto a usare la sua candidatura come un palcoscenico per diffondere e dare unità a molte rivendicazioni già esistenti e apparentemente scollegate. Il salario minimo di quindici dollari l’ora, la fine delle incarcerazioni di massa, un’assistenza sanitaria disponibile per tutti, un libero accesso all’istruzione, la decriminalizzazione della marjiuana, il riconoscimento legale di migliaia di immigrati, il divieto di praticare il fracking [la fratturazione idraulica è un processo di estrazione del gas naturale molto invasivo nei confronti dell’ambiente, ampiamente diffusosi negli ultimi anni negli Stati Uniti, NdT.], sono solo alcune delle istanze raccolte. Queste pressioni lo hanno inoltre portato a sollevare una vera e propria ondata di questioni politiche che nessun candidato alla presidenza degli Stati Uniti avrebbe mai osato toccare. Sanders ha pubblicamente denunciato sulla tv nazionale l'imperialismo americano, ricordando il colpo di stato guidato nel 1953 in Iran per istituire un governo filo-occidentale, quello in Guatemala del 1954, la Baia dei Porci, il Vietnam, l’Iraq, e via dicendo. Si è speso per i diritti dei palestinesi, in una nazione nella quale la sola parola “Palestina” viene evitata da quasi tutti gli esponenti politici. E, così come avevano fatto le Black Panthers, ha definito la polizia una “forza d’occupazione”.
Molte di queste idee sono certamente comuni nella maggior parte degli ambienti di sinistra radicale, e non costituiscono di per sé un'idea di socialismo, in qualunque modo questo termine voglia essere inteso. Del resto, Sanders stesso non è un socialista. Non fa mai riferimento all’accesa storia delle lotte socialiste negli Stati Uniti, per quanto lui stesso abbia realizzato in passato un documentario su Eugene V. Debs. Quando parla di socialismo, fa riferimento al New Deal di Franklin D. Roosevelt, o alla Danimarca della seconda metà del Novecento. Come tutti i socialdemocratici, Sanders vuole unwelfare state maggiormente equo e forte, e non l’abolizione dell’impianto di produzione capitalista. Ma, detto questo, il suo dare voce ai messaggi dei movimenti radicali – pur riarticolati entro un contesto socialdemocratico – ha avuto un impatto innegabile su milioni di americani, soprattutto sui giovani, i quali non avevano dimestichezza con certe idee, oppure erano troppo impauriti per sposarle, o ancora le avevano bollate come irrealizzabili, abbandonandole. Un recente sondaggio di Harvard ha mostrato che le attitudini politiche dei giovani sono già cambiate considerevolmente nel corso dell’ultimo anno, e il direttore del sondaggio, John Della Volpe, ha sottolineato che Sanders è una delle cause primarie di questi risultati. “Non sta spostando a sinistra un partito”, ha dichiarato Della Volpe, “sta spostando a sinistra una generazione”.
Inoltre, Sanders ha aiutato a tracciare linee di demarcazione. Anche se molti dei suoi bersagli abituali, come “i milionari” o “Wall Street”, sono terribilmente ovvi e irrimediabilmente vaghi, Bernie ha d’altra parte pubblicamente identificato i “capitalisti” come un nemico di classe, indicato il “capitalismo” come il problema, e ha invocato la “rivoluzione politica” come la via da seguire. Così, davanti a milioni di persone che stanno cominciando solo adesso a riflettere su cose come “il capitalismo”, Sanders ha messo in mostra la sistematicità dei problemi che affligono la nostra società, e che spesso sono considerati problemi personali, o casi isolati; e ha insistito sull’unica via percorribile a suo avviso, e cioè quella che persegue una ristrutturazione collettiva e radicale di questo sistema. Di per sé, questo impianto argomentativo è banale, ma è rimarchevole il fatto che la sua diffusione vada a toccare milioni di persone. Il sondaggio di Harvard di cui abbiamo detto ha rivelato, ad esempio, che il 51% degli americani tra i diciotto e i ventinove anni non sono a favore del capitalismo. Ovviamente non è chiaro cosa gli interpellati intendessero con la parola “capitalismo”, ma è comunque un buon inizio, specialmente in un paese come gli Stati Uniti.
Allo stesso tempo, il successo inaspettato della campagna di Sanders ha costretto molte persone, organizzazioni, e istituzioni ad abbandonare la loro neutralità di facciata per condurre verso di lui un attacco selvaggio. Ma questi assalti, caratterizzati da estremismo e ferocia crescenti, hanno permesso a milioni di americani di vedere certe realtà per quello che sono. Per quanto la maggior parte degli statunitensi abbia perso da tempo fiducia nei confronti dei media – un recente sondaggio ha rivelato che solo il 6% degli americani si fida della stampa –, la loro aperta faziosità ha spinto molte persone, soprattutto di giovane età, a dare una natura politica alla loro sfiducia, cosicché ora molti considerano i media mainstream poco più che il braccio propagandistico della classe dirigente. Politici e opinionisti di riferimento e considerati di idee progressiste, si sono rivelati invece come dei reazionari. Nello stesso modo, il Partito Democratico si è mostrato chiaramente come uno degli ostacoli più grossi nei confronti di un cambiamento significativo delle condizioni sociali del paese.
Ma l’aspetto più importante della campagna di Sanders – ancor più della messa in circolazione di idee radicali, di un appello per un cambiamento sistemico, o del mettere allo scoperto una serie di nemici – è risieduto nella capacità di innescare una sorta di mobilitazione di massa. Milioni di americani, molti dei quali non avevano mai votato prima, si scoprono ora donatori della campagna, o ancora volontari ai centralini o nel porta a porta. Lo spendersi per un’elezione di matrice borghese non è ovviamente di per sé segno di radicalismo, ma mostra un potenziale da sfruttare nel futuro per politiche di stampo socialista. La campagna ha messo in moto una mobilitazione che ha permesso a differenti reti di attivisti di connettersi tra loro, e ha inoltre attirato nuovi soggetti entro reti politiche esistenti, e formato una nuova generazione di potenziali militanti.
Bernie conta su una base molto variegata, ma il supporto più imponente viene dai giovani. Oggi infatti l’età determina più di ogni altro fattore le inclinazioni politiche delle persone. In alcuni luoghi, più dell’80% dei votanti sotto i trent’anni sono dalla parte di Sanders. Per lo stesso motivo, la maggior parte di loro non crede in Hillary Clinton. Questo tipo di polarizzazione nella politica di massa, definita secondo nette linee generazionali, non si era più visto dopo gli anni ’60 e ’70. La mobilitazione degli anni ’60 fu però almeno in parte resa possibile da un “movimento giovanile” che prese autocoscienza, anche tramite la mediazione di veicoli quali musica, sesso, droghe, e che fu spinto dalla fiducia nel presunto potenziale emancipatorio insito nella gioventù; oggi invece il radunarsi dei giovani attorno a idee radicali non è dovuto a una qualche “cultura giovanile”. È bensì dovuto al fatto che i giovani si sono trovati a vivere in un’epoca di crescita economica fittizia, al termine della quale è arrivata una crisi devastante che ha spazzato via ogni tipo di illusione, lasciandosi dietro solamente un debito sconvolgente, disoccupazione e l’assenza di un futuro. Per loro la politica non è una moda passeggera: è anzi divenuta letteralmente una questione di vita o di morte – soprattutto se teniamo presente che stiamo avendo a che fare con la prima generazione pienamente capace di riconoscere l’incombenza del disastro ecologico che si è messo in moto, e che sempre più persone, giustamente, mettono in connessione con il capitalismo.
Ciò che sta emergendo è dunque una nuova generazione di giovani – appartenente per la maggior parte alla working class o alla morente “classe media” – che si apre a idee socialiste, che invoca un cambiamento sistemico tramite reti sempre più solide, e facendo affidamento su crescenti attitudini ed esperienze nell’organizzazione politica. La maggioranza di queste persone, così come Bernie, non è socialista storicamente in nessun senso, ma c’è la volontà di combattere per cambiare le cose radicalmente. Il potenziale è enorme, e perciò dobbiamo ringraziare Sanders, ci piaccia o meno la sua campagna socialdemocratica.
Cosa succederà ora? È questa ovviamente la questione più importante. È molto probabile che questa emergente schiera di gioventù politicizzata venga incorporata entro il Partito Democratico. Se Bernie vince alle primarie, i rischi sono enormi. Ma anche se non ci riesce, potrebbe succedere la stessa cosa se Sanders si accoderà alla Clinton nella Convenzione di luglio. O forse la Clinton, se vincerà, valuterà l’ipotesi di puntare su qualcuno come Elizabeth Warren per la carica di Vicepresidente, nell’ottica di una strategia che miri a portare dalla propria parte i supporters di Bernie. Questo aspetto rivela l’enorme contraddizione insita nella campagna di Sanders: non sarebbe infatti mai riuscito a raggiungere – né tantomeno a radicalizzare – un bacino così ampio di persone se non avesse corso da candidato democratico; ma agendo entro le maglie del Partito Democratico sta rischiando di portare queste nuove masse politicizzate entro quella che è probabilmente la forza controrivoluzionaria più grande degli Stati Uniti – è infatti vero che i giovani si sono radicalizzati, ma la maggior parte di loro si ritrova ora a identificarsi nei democratici.
È persino possibile che questa energia si dissipi nel giro di pochi mesi. Una vittoria della Clinton, o più precisamente un voto contro Trump, potrebbe demoralizzare una generazione già ampiamente sospettosa delle manipolazioni politiche. E se anche Bernie riuscisse a vincere ma poi dovesse fallire nel realizzare aspetti cruciali delle sue proposte, ciò porterebbe allo stesso modo a una disillusione collettiva, processo già avvenuto con la delusione dei sostenitori di Obama (per quanto vada notato che questo non ha portato a un abbandono delle istanze politiche, ma anzi ad una adunata attorno alla figura di Sanders). In definitiva, invece di dare ai giovani la possibilità di ribaltare il sistema, questa campagna potrebbe portare i più alla rassegnazione nei confronti del sistema stesso.
Questi possibili scenari sono già stati discussi, ma niente è ancora definito. La sinistra radicale può avere delle carte da giocare durante la partita, e ciò porta a una terza possibilità: l’unione di questa nuova ventata socialista entro un’organizzazione rivoluzionaria autonoma.
Sfortunatamente però la sinistra radicale non ha ancora elaborato una strategia coerente, per quanto si faccia un gran parlare di queste questioni, che prevedono anche un “People's Summit” a Chicago, e una serie di assemblee per trovare una Socialist Convergence durante il mese di giugno, che vedranno riuniti i rappresentanti di diverse formazioni della sinistra radicale negli Stati Uniti. Allo stato attuale, l’approccio pratico delle realtà organizzate è stato quello di “reclutare” i giovani sostenitori di Sanders – o, per meglio dire, si è aspettato che questi soggetti finissero magicamente nelle loro cerchie. Per quanto mi riguarda, questa visione è condannata al fallimento. Se anche le realtà organizzate esistenti riuscissero a reclutare alcuni dei sostenitori di Bernie entro le loro fila, non possiamo muoverci realmente in avanti smembrando questa giovane massa politicizzata entro piccoli gruppi, sopravvissuti di un’altra epoca storica. Potranno cercare di aggiornarsi al XXI secolo, ma queste organizzazioni di fatto non riescono a rispondere alle istanze che le lotte contemporanee presentano.
Abbiamo bisogno di pensare a nuove forme di organizzazione che siano appropriate a questa precisa fase storica. Personalmente suggerisco perciò che i militanti statunitensi, se davvero vogliono tirare fuori il massimo da questi scossoni, considerino la possibilità di abbandonare le formazioni politiche esistenti per crearne una nuova. Un’idea del genere può apparire presuntuosa, ma dobbiamo tenere presente che le forme organizzate di maggior successo del passato – e cioè quelle che si sono adattate meglio ai bisogni del loro tempo – sono sempre emerse dalla liquidazione e dal rimescolamento profondo di gruppi, reti, e collettività esistenti.
Personalmente non sono quasi mai favorevole a questo tipo di chiamate verso una “Left Unity”, dal momento che di solito puntano soltanto a retoriche dichiarazioni di solidarietà tra realtà che non hanno una reale connessione con i movimenti di massa. Ma in questo caso abbiamo senz’altro di fronte un movimento di massa, per quanto esso sia inserito entro la maschera di una campagna elettorale. E questo movimento è legato profondamente ad alcune lotte molto accese nelle quali la sinistra radicale è coinvolta da vicino. Ci sono perciò le condizioni di possibilità per una nuova organizzazione. L’unità potrà essere raggiunta non per condivisione di un impianto ideologico, ma attraverso lotte da portare avanti in comune.
Dovremmo sentirci incoraggiati per il fatto che molti di questi nuovi sostenitori di Sanders potrebbero essere già pronti a rompere con il sistema politico – secondo un sondaggio, per esempio, un terzo dei supporters di Sanders sostiene che non voterebbe per la Clinton alle elezioni politiche. Ma senza un’alternativa plausibile, in forma di una presenza organizzata, non saremo in grado di trasformare questo nascente sentimento di rottura – riassunto nello slogan #BernieOrBust – entro un’ottica di politica rivoluzionaria. E se, contro ogni aspettativa, Sanders vincesse, è verosimile che soltanto un’organizzazione unificata e capace di raccogliere le istanze delle molteplici lotte presenti in questo momento storico, sarebbe capace di tenere lontani i giovani da un inserimento entro il Partito Democratico, una realtà irriformabile e immodificabile. In sostanza, abbiamo bisogno di un’organizzazione che faccia da collante, tenendo insieme i milioni di soggetti entusiasti per una possibilità di cambiamento, e che potrebbero altrimenti disperdersi, o ritrovarsi sussunti e smembrati entro gli apparati dello stato.
La posta in palio è altissima: la sinistra radicale, solitamente una forza minuscola e inefficace negli Stati Uniti, ha bisogno di concepire una strategia organizzativa coerente e condivisa. Ora più che mai abbiamo bisogno di un’organizzazione che sia in grado di politicizzare le nuove generazioni, di coinvolgere persone, di tenere uniti movimenti lontani tra di loro, di dare voce a differenti settori della working class, di fare tesoro della continuità che si crea tra differenti ondate di lotta, di dare forma a un progetto comune. E soprattutto abbiamo bisogno di un’organizzazione che sia in grado di prendere il potere – e con ciò non penso alla vittoria di un paio di poltrone nel Congresso come un qualsiasi partito, ma bensì alla distruzione del capitalismo attraverso una sollevazione rivoluzionaria di massa che si realizzi dentro e contro gli apparati dello stato. Dagli anni ’70 non si era più dato negli Stati Uniti un tale interesse nei confronti di un cambiamento radicale, né una tale rabbia nei confronti del capitalismo. Se da socialisti impegnati quali siamo mancheremo questo momento, allora il futuro non ci perdonerà.
Traduzione a cura di Commonware. L’articolo, nella sua versione inglese, esce contemporaneamente su Viewpoint.
Fonte: commonware.org
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