di Sergio Farris
Sembra che, dopo diversi anni, l'economia dell'eurozona stia finalmente uscendo dalla recessione. Nei primi tre mesi del 2016, probabilmente aiutata dalla politica monetaria espansiva messa in atto dalla Banca centrale europea, la crescita della zona euro nel suo insieme è stata dello 0,6%. Rispetto allo stesso periodo del 2015, la crescita è stata del 1,6%. Non si tratta, tuttavia, di un risultato esaltante, specie in raffronto al PIL perduto durante gli anni precedenti. Anni nei quali persino il paese più importante, la Germania, non ha conosciuto certo una crescita spettacolare. ll suo PIL reale è aumentato solo del 5,5 per cento rispetto al livello del 2008. In sostanza, una situazione di stagnazione. A dispetto della tardiva modesta ripresa, bisogna poi rilevare che i dati sulla disoccupazione (10,5%), sulla produzione industriale, (-10% rispetto al 2008), sugli investimenti (ancora inferiori rispetto al 2008), sono tuttora allarmanti.
Anche volendo, nonostante tutto, ammettere che la situazione economica stia effettivamente volgendo verso un progresso, resta legittimo chiedersi: perchè la zona euro si sta riprendendo così lentamente? E soprattutto: iI percorso di politica economica seguito finora è quello più appropriato?
Vi è ormai un crescente consenso intorno all'ipotesi che la notevole durata della crisi nell'eurozona sia stata cagionata dalle politiche che i governi nazionali e le istituzioni comunitarie hanno messo in campo per reagire ad essa. Tali politiche, talmente improntate all'austerità da contribuire a far riesumare dopo decenni il fenomeno della deflazione, sono tuttavia con grande probabilità, nonostante qualche sporadica voce di dissenso, destinate a proseguire. Tralasciando la specifica questione greca, vi è stato sì un dibattito concernente l'ipotesi di concedere qualche margine di flessibilità nei conti pubblici a paesi in preda a una recessione prolungata come l'Italia, ma, tutto sommato, non è mai prevalso un indirizzo politico che mettesse seriamente in discussione il tragitto di “convergenza verso l'equilibrio del saldo di bilancio strutturale”. La discussione non si è mai discostata dal riconoscimento dell'opportunità di concedere qualche punto decimale di flessibilità nel deficit pubblico a paesi come il nostro, che più hanno insistito sull'argomento.
Se si riconoscesse che il problema che zavorra la zona euro è l'austerità, bisognerebbe riconoscere il problema politico ad essa connesso: i vigenti trattati fiscali europei, lo statuto della Bce (il quale pone all'istituto il divieto di finanziare la spesa pubblica) e la divaricazione di interessi fra paesi creditori e paesi debitori.
Dal lato della politica monetaria, va detto che la Bce sta, da tempo, inondando di liquidità il sistema economico, adottando politiche monetarie definite “non convenzionali”. Purtroppo, uno dei limiti di tale azione è che essa si concentra, da una parte, sull’offerta di credito che il settore finanziario privato dovrebbe mettere a disposizione del pubblico e, dall’altro, sul cosiddetto “effetto ricchezza” derivante dall’auspicato incremento di valore delle attività finanziarie, nella speranza che per il tramite di questi canali si produca un rilancio degli investimenti, della spesa e dell'occupazione. Ci si attenderebbe da tutto ciò un miglioramento degli indici economici prima menzionati ed anche un aumento del tasso di inflazione. Eppure, in realtà sta accadendo il contrario o, comunque, non si stanno verificando i risultati attesi.
E' evidente che la sola politica monetaria non basta.
Se questo è il quadro generale, andrebbe preso atto del fatto che l'unica politica la quale potrebbe determinare in un tempo relativamente ragionevole un'inversione di tendenza (risollevando, in particolare, le sorti dei paesi in maggiore sofferenza), è una politica fiscale espansiva in forte deficit, attuata mediante la spesa pubblica (ovviamente dovrebbe trattarsi di spesa produttiva diretta e non di mera spesa indiretta, come ad esempio trasferimenti di risorse).
Purtroppo, per via dei vincoli politici prima citati, questa linea d'azione è anche quella che ha meno probabilità di venire realizzata. Non solo: come è noto, una simile politica confliggerebbe con l'orientamento ideologico largamente prevalente, cioè “meno stato e più mercato”. Per i più, i quali non perdono occasione per denunciare l'invasività dello stato, un ritorno del settore pubblico, dopo decenni all'insegna di liberalizzazioni e privatizzazioni, è improponibile.
Ma questi non sono tempi normali: il contesto è quello che gli economisti postkeynesiani hanno chiamato “trappola della liquidità”. In tale contesto la politica monetaria, come abbiamo visto, è inefficace. Intendiamoci: è opportuno che il tasso d'interesse ufficiale sia stato portato a zero, solo che questo non è sufficiente. La politica monetaria deve fornire la liquidità che dovrebbe però essere impiegata tramite la spesa pubblica in deficit. Nonostante la copiosa liquidità presente oggi nel sistema, mancano domanda e ordinativi. Così, il settore privato non è in condizione di impiegare tale massa di liquidità per sostenere consumi (ci sono troppi redditi insufficienti o in calo) e progetti di investimento (mancano prospettive di profitto). Tutti cercano di risparmiare o di ridurre il proprio livello di indebitamento.
Ho accennato, prima, alla divisione tra paesi creditori (come Germania, Austria, Olanda) e paesi debitori (Spagna, Portogallo, Grecia, Italia, Irlanda). I primi predicano la dottrina dell'austerità a oltranza da applicare ai paesi del secondo gruppo. Ci si aspetterebbe che questi ultimi si opponessero a tale impostazione di politica economica (in realtà, la Grecia ci ha provato, seppure invano). Ci si aspetterebbe anche che il maggiore di questo gruppo di paesi, il nostro, assumesse senza ambiguità un atteggiamento anti-austerity.
Eppure, nonostante la natura della crisi, le proposte per la ripresa avanzate più di frequente qui in Italia sono: una riduzione delle imposte coperta da una pari riduzione di spesa pubblica e, da parte dei più audaci, una riduzione delle imposte creando deficit pubblici. Tuttavia sarebbe controproducente un abbassamento delle imposte finanziato con una contrazione di spesa pubblica di pari ammontare. Tanto più in una fase come quella descritta, cioè quando il moltiplicatore della spesa è superiore rispetto al moltiplicatore delle imposte. Per la stessa ragione, se anche ragionando per assurdo, ai paesi in crisi venisse concesso un superamento del parametro nominale del 3% di rapporto defici/PIL al fine di favorire un abbassamento delle imposte, l'effetto espansivo sul PIL sarebbe inferiore e più lento rispetto a quello ottenibile tramite la spesa pubblica.
A proposito di preferenze ideologiche, va rammentato che, in verità, il superamento del 3% di rapporto nominale defici/PIL è stato ampiamente concesso ai paesi che dovevano sostenere i sistemi bancari privati (Spagna, Irlanda). Non solo: se la Bce avesse potuto, allo scoppio della crisi, finanziare direttamente gli stati allo stesso tasso d'interesse con il quale ha finanziato il sistema bancario privato, si sarebbe sin da allora potuto liberare cospicue risorse per contrastare la crisi stessa.
Per completezza, bisogna poi ricordare che, avendo sottoscritto il trattato noto come “Fiscal compact“, il nostro paese si è impegnato a seguire un percorso che dovrà condurlo al cosiddetto “obiettivo di medio termine” o pareggio di bilancio strutturale, un obiettivo che non può far altro che far rimpiangere il suddetto limite del 3% di rapporto deficit/PIL. Per il prossimo anno, ad esempio, lo stesso rapporto dovrà essere del 1,8%.
Ancora, con riferimento a eventuali politiche fiscali espansive, si ritiene spesso che esse darebbero luogo a seri rischi quali l'inflazione e l'incremento dei debiti pubblici. E' ovviamente inconcepibile, nella situazione deflattiva attuale, un pericolo di inflazione. Analogamente, non è concepibile un pericolo legato all'aumento dei debiti pubblici contratto per finanziare un'eventuale politica di spesa pubblica. Ciò perchè: 1) vi sarebbe probabilmente un vero ritorno della crescita; 2) durante una fase economica del tipo che stiamo attraversando, la spesa pubblica offre ai detentori di liquidità un “posto dove collocare le disponibilità liquide”, il che allontana la prospettiva di un aumento dei tassi d'interesse; 3) se maturasse un mutamento generale negli indirizzi di politica economica, la Banca centrale europea si dovrebbe impegnare ad acquistare direttamente titoli del debito pubblico dei paesi membri dell’eurozona nella misura sufficiente ad uniformare i rispettivi tassi d'interesse ed a fare altresì in modo che questi non eccedano i tassi di crescita del PIL, così da mantenere stabili i rispettivi rapporti debito pubblico/PIL. E poi abbiamo constatato che le politiche dell'austerità hanno incrementato ovunque i debiti invece di ridurli, sicchè, se il pericolo che si vuole fugare è l'aumento dei debiti pubblici, tali politiche andrebbero semmai dismesse per lasciare spazio a tentativi di altra matrice. Purtroppo, come sopra anticipato, i maggiori ostacoli ad un cambiamento di direzione nella politica economica sono costituiti dagli elementi “istituzionali” dell'Unione europea, basati su un orientamento di cultura economica da decenni dominante e difficile da smuovere.
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