di Lorenzo Guadagnucci
La Francia sta vivendo una fase di intensa sperimentazione politica e costituzionale che andrebbe seguita con maggiore attenzione e preoccupazione. Lo scorso 16 febbraio lo stato d’emergenza è stato prorogato di altri tre mesi, quindi fino al 26 maggio, senza che vi sia stato in Parlamento un dibattito particolarmente acceso. I cittadini francesi, a quanto sembra, si sono rapidamente abituati all’estensione dello “stato d’eccezione” e dev’essere per questo che il primo ministro Manuel Valls è arrivato a prefigurare la durata dell’emergenza finché il Daesh non sarà sconfitto, che è come dire a tempo indeterminato. Ma può un Paese vivere in stato d’eccezione permanente? Il senso dell’esperimento francese è forse una possibile risposta affermativa a questo quesito.
19 maggio 2016, il tweet dall'account ufficiale del Parlamento francese che annuncia la proroga dello Stato d'emergenza. Hanno votato in 68
Le misure repressive, a dire il vero, non hanno dato finora risultati significativi. Il 9 febbraio scorso il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve ha specificato che sono state effettuate 3.340 perquisizioni di polizia ma che solo in un quinto dei casi si sono riscontrate infrazioni, raramente legate a fattispecie riconducibili al terrorismo.
Colpisce il dato riguardante le procedure giudiziarie avviate per presunti legami con la minaccia islamista: appena sei. Il presidente François Hollande non sembra però avere esitazioni di sorta e continua a sostenere, nonostante le polemiche e le recenti dimissioni della ministra della Giustizia Christiane Taubira, anche la decadenza dalla cittadinanza per chi subisca una condanna per avere gravemente attentato alla Nazione. Intanto, l’inserimento dello stato d’emergenza in Costituzione è stato approvato alla Camera ed ora è all’esame del Senato.
Il resto d’Europa sembra seguire distrattamente quel che avviene in Francia, eppure a Parigi si prendono decisioni di particolare gravità e si intavolano discussioni impensabili, fino a pochi anni fa, nella (ex?) patria dei diritti umani. Già a dicembre Hollande aveva comunicato (non chiesto, semplicemente “comunicato”) la decisione di derogare per tre mesi dalla Convenzione europea per i diritti umani, una misura prevista dall’articolo 15 ma particolarmente grave, visto che la Francia ha annunciato che potrebbe non rispettare il diritto a un equo processo, la tutela della libertà d’espressione, della libertà di associazione e del rispetto della vita privata.
Se ne è avuto un assaggio con i divieti di manifestazione in occasione del vertice internazionale sui cambiamenti climatici tra fine novembre e inizio dicembre 2015 (COP21) e con gli arresti domiciliari preventivi inflitti ad alcuni attivisti ecologisti.
Il culmine si è però toccato con la discussione aperta attorno a un’idea che riporta agli anni più bui della storia europea e cioè l’ipotesi di istituire dei campi di detenzione per le persone classificate negli schedari della polizia politica con la lettera “S”, cioè suscettibili di attentare alla sicurezza dello Stato (islamisti, ma non solo). La proposta, inizialmente avanzata da Marine Le Pen, è stata rilanciata dalla “destra repubblicana”, ad opera dell’ex ministro Laurent Wauquiez. Il proposito non è stato respinto con sdegno, come sarebbe stato lecito attendersi, bensì accantonato perché la legge del 1955 sullo stato d’emergenza, quella attualmente in vigore, vieta espressamente di istituire simili luoghi di detenzione, i quali in realtà furono creati nel 1957, quando lo stato d’emergenza fu rimpiazzato dai pieni poteri affidati al governo del tempo: almeno 5mila algerini furono così internati in quattro diversi campi. La Francia rischia d’essere la palestra della post democrazia europea.
Fonte: Altreconomia
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