di Marina Catucci
Un altro lungo martedì elettorale si è appena concluso negli Stati uniti durante questa imprevedibile campagna elettorale. Per i democratici il campo elettorale è stato quello rappresentato dal Kentucky e dall’Oregon: nel primo caso ha vinto di pochissimo Hillary Clinton (46,8 contro il 46,3 di Sanders), nel secondo si è assistito alla netta vittoria di Sanders con il 53,6. Questo tipo di risultato ha confermato la difficile posizione della Clinton e questa campagna elettorale, che doveva essere una sua tranquilla passeggiata verso la Casa bianca ma che in realtà presenta due ostacoli: l’esterno Trump e l’ostacolo interno di Sanders che, come ha più volte dichiarato, continuerà a correre fino alla fine della campagna. Nel suo discorso dopo il voto in Kentucky, Clinton ha nuovamente chiesto l’unità del partito. «Uniti vinceremo» ha ripetuto Hillary in ogni suo comizio, ma sembra sempre più un’illusione.
Di fatto la radicalizzazione della base americana vede il partito democratico nettamente spaccato in due: Sanders ha già parlato di convention contestata, il suo elettorato non si sente rappresentato né si riconosce nel partito, ma da lui, che ha ormai sempre più l’atteggiamento di chi pensa che per fare una rivoluzione politica, sarà necessario anche calpestare qualche aiuola.
«Combatteremo fino all’ultimo, fino al 14 giugno – ha detto Sanders in un suo comizio – E poi faremo battaglia alla convention».
La dichiarazione che non lascia dubbi sulle intenzioni di Bernie, è arrivata da Carson, in California, dove si è già spostato per quello che è l’ultimo dei grandi appuntamenti elettorali e che si svolgerà il 7 giugno.
Sul fronte repubblicano, invece, nessuna sorpresa: rimasto solo, dopo il ritiro di tutti gli altri candidati, Trump ha vinto.
Il partito repubblicano, dopo lo shock e lo sgomento sta ancora cercando una via di uscita ma uno ad uno quelli che potevano essere i candidabili per essere presentati come elemento di disturbo anti Trump, se schierati come indipendenti, si sono defilati.
Nessuno vuole immolarsi in un’operazione che segnerebbe la propria personale fine politica e non è detto che salverebbe il partito da una brutta fine.
Dal suo lato Trump gongola per delle primarie tutte in discesa,
Martedì ha vinto in Oregon correndo da solo, pochi giorni prima aveva pubblicamente fatto pace con l’odiata giornalista di Fox News, Megyn Kelly, concedendole una lunga intervista dove ha mostrato il suo lato di gigionesca magnanimità giocando il ruolo dell’agnellino; ma la sorpresa era dietro l’angolo.
Durante un’altra intervista, questa volta a Reuters, Trump ha dichiarato di esser pronto a parlare con il leader nord coreano Kim Jong-un per fermarne il programma nucleare.
Ha anche detto di voler smantellare gli accordi di Parigi sul clima e quel minimo di paletti che Obama ha messo a Wall Street, ma l’attenzione di tutti è stata catturata dalla volontà del miliardario del Queens di voler incontrare il leader dell’arci nemica Corea del Nord, convinto di riuscire a poterlo portare alla ragione.
La strategia di Trump passerebbe per la Cina, infatti ha dichiarato che farebbe pressioni sulla Cina, unico vero alleato diplomatico ed economico di Pyongyang, affinché si impegni a trovare una soluzione.
«Metterei molta pressione sulla Cina, perché economicamente abbiamo un grande potere sulla Cina», ha dichiarato Trump.
In risposta alle dichiarazioni del tycoon, Hillary Clinton ha fatto notare «la bizzarra fascinazione per gli uomini forti stranieri» del suo rivale repubblicano. Non si conosce al momento la volontá di Kim Jong-un di incontrare Trump.
Fonte: il manifesto
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