di Graziano Graziani
C’è un racconto di Chuck Palahniuk dove lo scrittore si meraviglia del fatto che diverse persone abbiano speso tempo e soldi per edificare castelli in giro per gli Stati Uniti. Non si tratta di un’opera di fiction, perché il libro da cui è tratto, «La scimmia pensa, la scimmia fa», è composto da una serie di reportage narrativi che raccontano storie improbabili ma assolutamente vere. Anche se si tratta di un’attività completamente senza senso, almeno dal punto di vista pratico, se la si guarda da un’altra angolazione può non stupire più di tanto: i castelli sono forme che hanno smesso di abitare la sfera del valore d’uso ma non sono mai usciti da quella del simbolico. Anche l’Italia ha avuto i suoi eccentrici “costruttori di castelli”. È il caso del Castello di Sammezzano, del cui destino incerto si è tornato a parlare di recente. O del Castello Pasquini di Castiglioncello, che è stato invece recuperato dal comune di Rosignano, in provincia di Livorno.
Chi si aggira per le strade del teatro contemporaneo il Castello Pasquini lo conosce bene, perché è da anni la sede di Armunia e del suo lavoro preziosissimo tra danza e il teatro.
Chi si aggira per le strade del teatro contemporaneo il Castello Pasquini lo conosce bene, perché è da anni la sede di Armunia e del suo lavoro preziosissimo tra danza e il teatro.
È di qualche giorno fa la notizia che il Castello chiuderà per restauri e riaprirà, se i tempi saranno rispettati, nel 2017. Le esigenze di restauro, da quanto si capisce, nascono dai danni arrecati dal maltempo alla tensostruttura adiacente al castello. Ma da quando è uscita la notizia serpeggia la preoccupazione che questo episodio venga colto come pretesto per allontanare Armunia dalla sua sede storica. Anche perché il sindaco di Rosignano, Alessandro Franchi, ha detto chiaramente in un’intervista al Tirreno che la vocazione del Castello, alla sua riapertura, sarà di tipo economico-turistica: convegni, cerimonie, mostre mercato, arena concerti e una non meglio specificata attività di “spettacolazione” (sic!).
Cosa c’entra tutto questo con un progetto storico come Armunia, che ha dato vita a una delle residenze artistiche più interessanti di Italia, divenendo un tassello essenziale per il percorso di artisti come Lucia Calamaro, Claudio Morganti, Gaetano Ventriglia solo per citarne alcuni dell’ultimo periodo? Nulla. Chiunque si occupi di arte e lo sa bene. Ma la vera domanda è: gli artisti, e quel pezzo di Italia che li segue ed è in grado di distinguere un quadro di Pollock da una macchia di vernice, che invoca a gran voce un paese a livelli europei, parlano oggi la stessa lingua degli amministratori? La risposta è no. Ed è una risposta drammatica. Non tanto perché i politici siano tutti strutturalmente degli ignoranti (è una cosa non vera, e generalizzare significa sempre mistificare). Piuttosto perché le priorità della politica sono ormai diametralmente all’opposto di quanto esprime quel pezzo di Italia in termini di concezione del mondo.
Oggi una delle priorità degli enti pubblici è mettere a reddito le risorse. Privatizzando o comportandosi come un’impresa. Una mutazione genetica che si è manifestata di pari passo a quel fenomeno che ha visto le notizie di economia risalire vertiginosamente il menabò dei quotidiani, dalle sezioni dedicate fino alla prima pagina. Ma siamo sicuri che dietro una simile colonizzazione del pensiero non si nasconda qualcosa di più profondo?
La possibile “espugnazione del castello” ha un valore che non è soltanto economico, ma anche simbolico. Perché incarna una scelta precisa: mettere in vetrina il mainstream della politica e dello spettacolo e chiudere nel sottoscala il mondo minoritario dell’arte.
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Il caso del Castello Pasquini va inserito nel quadro più generale di uno smottamento del panorama teatrale. Mentre scrivo questo articolo, ad esempio, arriva la notizia della chiusura di un’esperienza preziosa come il Teatro Fondamenta Nuove, a Venezia, ed è di pochi giorni fal’appello lanciato da Terreni Creativi, il festival che ad Albenga porta il teatro nelle aziende agricole liguri, impossibilitato a proseguire le proprie attività nell’indifferenza delle istituzioni. Sono solo gli ultimi due casi di una lista che in pratica si allunga ormai quotidianamente.
La situazione in cui ci troviamo sembra davvero senza precedenti, ma proprio per questo bisogna resistere alla tentazione di semplificare parlando genericamente di “attacco alla cultura”. Mentre un certo tipo di arte rischia di ritrovarsi nel giro di pochissimo senza luoghi dove incontrarsi, riconoscersi, coagularsi, il sistema della cultura continua a celebrare se stesso nei Saloni, negli Eventi e nelle Stagioni ufficiali. Certo, nemmeno i luoghi istituzionali se la passano sempre benissimo: l’Italia è un paese che investe poco e male e la congiuntura economica aggrava la situazione. Ma anche laddove le situazioni sono sane, l’imperativo che le sottende è quello dei “numeri” e delle logiche del mainstream culturale.
Nell’ambito teatrale basta guardare alla recente riforma ministeriale. Gli effetti ce li ricorda Iside Moretti in un lungo articolo su Doppiozero, che si inserisce in un più ampio (ed inquietante) un affresco della situazione teatrale odierna. Servivano davvero sette stabili nazionali impegnati a fare i numeri richiesti dal ministero? La risposta è no, e infatti già si parla di rimettere mano alla riforma. Ma quello che davvero occorre chiedersi è se ha ancora senso pensare a dei luoghi centralizzati come i teatri nazionali, anziché creare strutture di nuova concezione più adatte intercettare la creatività diffusa.
Il vero tratto distintivo della realtà italiana è la grande effervescenza di gruppi medio piccoli, spesso nomadi e sostenuti da una rete molteplice di produttori. La vera scommessa sarebbe intercettare queste realtà senza snaturarne l’attitudine indipendente. E invece il sistema teatrale – o almeno il suo “fantasma amministrativo” – continua a sognare grandi produzioni e grandi compagnie stabili in un panorama artistico completamente mutato rispetto al Novecento.
La domanda è: a chi serve tutto questo?
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Una risposta possibile l’ha data Piergiorgio Giacchè in alcuni interventi del 2012 (in parte confluiti in un articolo per i Quaderni del Teatro di Roma). Tutto questo serve a stabilire la supremazia della commissione sul processo artistico, dell’istituzione sull’artista. Gli amministratori pubblici hanno sostituito i critici e gli operatori nella funzione di mediazione col pubblico. Questo processo è avvenuto all’interno di una mutazione più ampia, che ha visto la politica sottomettersi all’economia, la cultura sottomettersi alla politica e l’arte sottomettersi alla cultura. Secondo Giacché nei decenni scorsi i rapporti di forza erano esattamente all’opposto, e questo faceva sì che artisti fuori dagli schemi ma con un’enorme carica creativa, come ad esempio Carmelo Bene, potessero imporre senza compromessi la propria visione artistica.
Con il ribaltamento dei rapporti di forza tutto deve adeguarsi all’economia e alla politica, le cui priorità vengono orchestrate dal sistema culturale. L’arte, a quel punto, va valutata soltanto per i numeri che fa – scivolando drammaticamente verso l’intrattenimento – oppure in termini di animazione sociale, redditività, indotto turistico o pedagogico, a prescindere dall’effettivo valore artistico. L’obiettivo non è più il “successo” dell’opera presso il pubblico, ma il “consenso” che essa può suscitare. Un consenso che, secondo Giacchè, è costruito preventivamente dal sistema culturale.
Qualche esempio? Attilio Scarpellini ha di recente dedicato una puntata di “Qui comincia” su Radio 3 all’opera del fotografo Federico Pacini, che ha immortalato le “rovine contemporanee” del complesso del Santa Maria della Pietà a Siena, ovvero le sue parti non ancora restaurate. Una mostra con le foto di Pacini era prevista lo scorso dicembre proprio all’interno dell’ex ospedale, ma è stata annullata poco prima del vernissage. Sembra che l’immagine che l’artista ha dato dell’antico complesso si discostasse troppo da quella desiderata dall’amministrazione che ha investito nel suo restauro.
Di fronte ad episodi come questo dire che gli artisti e le istituzioni parlano ormai una lingua diversa è ben più che una metafora. E in questo caso la parola “artisti” va intesa come una sineddoche, come una parte per il tutto di quel mondo ben più vasto fatto di anche di operatori e pubblico che fruisce forme culturali oggi minoritarie, perché più attente alla qualità e alla sperimentazione che ai numeri e al consenso.
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Se c’è qualcosa che è sotto attacco, dunque, non è genericamente la “cultura”, ma piuttosto quell’idea di arte diffusa che nel decennio scorso sembrava – e in parte l’ha fatto – dover innescare una rinascita artistica di questo paese. Nel mondo della scena si parlava di “teatro indipendente”, un fenomeno che a sua volta si inseriva in un contesto più ampio fatto di cantautori di nuova generazione, artisti di strada e illustratori, iniziative editoriali.
Mentre si verificava la mutazione descritta da Giacché, che non è avvenuta certo di colpo ma si è stratificata nel tempo, questo mondo di artisti, operatori e pubblico si incontrava e si riconosceva in una serie di luoghi permanenti e temporanei dove portare avanti i propri percorsi: festival, associazioni, piccoli spazi privati e – soprattutto nelle aree metropolitane – spazi sociali. Una geografia frastagliata, fatta di soggettività estremamente diverse tra loro, che si sono però coagulate attorno all’attività degli artisti, sempre in cerca di nuovi luoghi dove portare avanti i propri percorsi senza sottostare completamente alle leggi di mercato.
Se inizialmente un pezzo di politica sembrava interessata ad intercettare questa creatività emergente, ben presto la tendenza si è invertita e oggi ci troviamo di fronte a un processo di desertificazione senza precedenti. È emblematico in questo senso il caso Roma (ma la vicenda di Atlantide a Bologna dimostra che non si tratta di un problema esclusivo della capitale). Lo ha ricordato qualche giorno fa l’invettiva di Christian Raimo su Internazionale, riuscendo a connettere con un’iperbole letteraria quello che ronza da tempo nella testa di molti: i concetti di “legalità” e “decoro urbano” sono la malta con cui si sta cementificando una concezione dello spazio pubblico diviso rigidamente; da una parte il sistema culturale istituzionale, titolato a spendere le risorse pubbliche, dall’altra il circuito degli investimenti privati, che devono seguire logiche di redditività e profitto.
Per gli spazi intermedi come le associazioni e gli spazi sociali, che sottraggono tempo e luoghi a questa doppia logica, sembra non esserci più cittadinanza. L’articolo di Raimo partiva proprio dall’ennesima chiusura di uno spazio (il circolo Arci “Dal Verme”), che va a sommarsi a un lungo elenco di luoghi più o meno defunti, dai teatri alle librerie, connettendo questa desertificazione all’immagine di una città mutata, infestata da locali alla moda sempre più iperbolici.
Non c’è voluto molto perché l’invettiva di Raimo venisse attaccata (ad esempio da Massimiliano Tonelli su Artribune) in nome di una concezione ipertrofica della legalità che tende pericolosamente ad accostare irregolarità amministrative a comportamenti criminali – a dimostrazione di come la colonizzazione del nostro lessico politico sia una concreta realtà e non un vagheggiamento teorico. Come se le norme con cui è governata l’Italia fossero state impartite direttamente a Mosé sul monte Sinai.
Leggi e norme sono prodotti dell’uomo, frutto di scelte che rispecchiano, spesso, le concezioni politiche di chi compie quelle scelte. In una realtà ideale la legge potrebbe aspirare organizzare l’esistente, non semplicemente negarlo. Altrove – ad esempio a Parigi o a Berlino – si sono sperimentate delle forme di sostegno a queste zone intermedie, sia pure in forma transitoria. Ad esempio è possibile per i progetti artistici e le associazioni abitare degli spazi in disuso per almeno due anni, in attesa della ristrutturazione da parte dei proprietari o del comune. Spazi dismessi, che esteticamente assomigliano molto ai nostri centri sociali. Luoghi che se fossero in Italia non avrebbero l’agibilità non dico per farci spettacolo o per ballare, ma nemmeno per metterci il naso dentro.
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In Italia ci troviamo di fronte a una serie di paradossi calati l’uno dentro l’altro e così, anche ciò che può sembrare logico finisce per rovesciarsi nel suo opposto. E così il giusto richiamo dell’articolo di Artribune all’utilizzo dei bandi pubblici finisce per risultare almeno in parte risibile. Basta pensare a come sono stati gestiti i bandi di assegnazione biennale dei Teatri di Cintura come il Quarticciolo: c’è voluto un intero anno per rendere pubbliche le classifiche, col risultato che i teatri sono stati fermi una stagione e i vincitori hanno visto dimezzarsi tempi e risorse. Ma al netto dei disservizi, siamo davvero sicuri che lo strumento del bando sia sempre esente dalle pressioni della politica? E qualora lo fosse, siamo certi che la pletora burocratica che deve affrontare chi partecipa a un bando sia il brodo di coltura adatto a intercettare fermenti creativi e spinte innovative?
In realtà i bandi, sempre più orientati alla redditività, finiscono per premiare le realtà più strutturate, quelle che sono già dentro una logica istituzionale e/o mainstream. Così come accade spesso che soggetti di diversa entità debbano gareggiare negli stessi bandi, partendo com’è ovvio da disponibilità differenti. O che l’arte e la ricerca, che hanno i loro criteri, debbano sottostare agli stessi parametri dello spettacolo e dell’intrattenimento. Trattare in modo eguale i diseguali è una forma di classismo mascherata da uguaglianza.
Penso sia possa nutrire dei dubbi sugli strumenti di cui dispongono le nostre amministrazioni senza essere accusati di eversione, visto il panorama stagnante in cui ci troviamo. Ad esempio non sempre le commissioni, impegnate tra numeri e parametri, sanno riconoscere i percorsi vitali che animano i territori – come invece fanno i pubblici e gli artisti che li attraversano e i giornali che li raccontano. Ma soprattutto dobbiamo tornare a domandarci che cosa finanziamo a fare il settore pubblico dell’arte, che in quanto utilizza soldi che vengono dalle nostre tasse va considerato alla stregua di un “servizio pubblico”.
Lo hanno fatto Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini un piccolo e illuminante saggio, «La fortezza vuota» (Edizioni dell’Asino), che prende a prestito un concetto con cui Bruno Bettelheim descriveva l’autismo per definire l’attuale situazione del sistema teatrale pubblico. Secondo i due autori i finanziamenti pubblici dovrebbero garantire la possibilità degli artisti di lavorare al riparo dai diktat economici, per poi connettere i migliori risultati di questo lavoro con il più vasto pubblico possibile, secondo un obiettivo generale che è quello dell’elevazione culturale e spirituale della cittadinanza. Quello che avviene oggi, tuttavia, è sostanzialmente il contrario: per intercettare ampi pubblici si inseguono le regole già scritte del mainstream culturale, riducendo sostanzialmente il divario contenutistico tra pubblico e privato, e dando vita a una sorta di frankenstein che i due autori battezzano “teatro pubblico commerciale”.
Nessun margine di manovra resta invece per quel mondo che, costruendo i propri percorsi in maniera autonoma, è in grado di fare nel piccolo quello che il sistema pubblico dovrebbe fare nel grande: formare nuovi pubblici attenti alla qualità e dare spazio a forme di socialità non omologate. I soggetti associativi devono, secondo la logica imperante, agire come imprese. Ma chiunque faccia impresa in questo paese sa quanto sia difficile restare sul mercato, figuriamoci se è possibile farlo operando una politica di prezzi contenuti e di reinvestimento diretto nella produzione artistica. Certo, probabilmente l’istituto dell’associazione culturale non è uno strumento valido, e come è stato chiesto da più parti servirebbe una nuova forma giuridica, una “piccola impresa dello spettacolo” che tenga conto a livello fiscale delle reali capacità economiche di queste realtà, senza chiedere loro di convertirsi alle logiche di mercato ma permettendo di proseguire come soggetti intermedi. Perché altrimenti, seguendo la logica dell’uguaglianza tra diseguali, l’unica speranza di sopravvivenza di questi luoghi sarebbe la loro conversione in bar, ristoranti e discoteche che poco aggiungerebbe a quella “elevazione culturale” di cui parlano Civica e Scarpellini.
La richiesta di diverse forme di fiscalità sarebbe uno strumento utile per garantire forme diverse di socialità e creatività artistica, e non ha nulla a che vedere – come ha scritto qualcuno– con presunti privilegi in nome della cultura. Piuttosto avvicinerebbe il nostro paese, in un modo peculiare, ai processi già sperimentati da altre nazioni europee (come la Francia degli intermittenti o la Germania degli spazi in affidamento). Anche perché il rischio sostanziale è quello di restare indietro e per giunta in modo paradossale.
Basta guardare cosa sta accadendo nel campo dei diritti d’autore, dove un soggetto come Patamù sta chiedendo a gran voce l’adeguamento della situazione italiana ai parametri europei, con il conseguente superamento del monopolio (opacissimo) della Siae. L’Italia è così restia a mettere mano ad un’evidente stortura del nostro sistema che oggi un artista che vuole affidare la gestione dei propri diritti ad un altro ente si trova di fronte ad una situazione paradossale: può farlo rivolgendosi a soggetti di altri paesi europei – ad esempio Soundreef in Inghilterra – ma non può farlo affidandosi a piattaforme italiane.
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Stretti come siamo tra le logiche di un privato necessariamente commerciale e di un pubblico prigioniero del mainstream culturale, sarebbe auspicabile l’avvento di una nuova forma di istituzione pubblica. Un’istituzione che dismetta i panni del “direttore artistico”, centralizzando scelte e risorse, svolgendo piuttosto un ruolo di valorizzazione dei percorsi creati in modo indipendente da artisti e nuovi pubblici. È solo dal dialogo paritario tra il mondo istituzionale e quello dell’arte indipendente che si può sperare di innescare un processo virtuoso, in grado di smuovere le acque stagnanti del sistema culturale. Oggi invece, al massimo, si assiste a forme di sussunzione che pretendono – in cambio dell’accesso alle risorse e alle cariche pubbliche – una sostanziale omologazione dei linguaggi e dei contenuti. Un processo che ha già disinnescato la creatività di più di una generazione di artisti.
Della necessità di istituzioni culturali di nuova concezione se ne è parlato, in modo approfondito, durante l’esperienza del Valle Occupato. Persino un grande detrattore come Pierluigi Battista (di cui Tonelli non fa che riprendere in modo assai più rozzo le tematiche) ha dovuto riconoscere che la riconduzione del Valle nell’alveo istituzionale è stata sostanzialmente un fallimento. In un articolo dello scorso febbraio l’editorialista del Corriere si lamentava di come a due anni dalla “liberazione” del teatro settecentesco ben poco sia stato fatto per riaprirlo. Chiaramente la sua retorica contro le “minoranze aggressive e violente” non gli permetteva di aggiungere che una delle primissime preoccupazioni degli occupanti era proprio quella di tenere aperto uno spazio vitale della città che, alla dismissione dell’Ente Teatrale Italiano, sarebbe inevitabilmente rimasto congelato nelle vischiosità della burocrazia italiana (per superare le quali qualcuno era pronto a proporre l’eterna soluzione a tutti i mali: l’affidamento a una gestione privata). Profezia che, al concludersi dell’esperienza dell’occupazione del Valle, si è puntualmente avverata.
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Come direbbe Peter Brook, che ai tempi del Valle Occupato diffuse un video messaggio a sostegno degli occupanti, viviamo in un’epoca che ci impone una complessità e una difficoltà tali che sembra impossibile qualunque azione in contrasto allo stato vigente delle cose. Un’epoca così vischiosa e opaca che ci ha regalato persino l’imbarazzo di un incontro improbabile tra lo stesso Brook e il commissario Tronca, odierno protagonista della stagione di desertificazione culturale che sta vivendo Roma (imbarazzo raccontato da Andrea Porcheddu sul blog Gli Stati Generali). La consegna della Lupa Capitolina, premio che la città di Roma ha assegnato al regista inglese, è una maldestra ma allo stesso tempo potente incursione nel simbolico tentata dall’autismo delle istituzioni, che segue le salde leggi del mainstream culturale per cui si premiano i grandi maestri non tanto per finalità artistiche – Brook, con la sua storia, ha ben poco bisogno di riconoscimenti – ma affinché, ancora una volta, i riflettori vengano puntati sull’istituzione che distribuisce onorificenze.
Beh, andate a rivedervelo quel videomessaggio del 2013. Esordiva con un’affermazione di questo tenore: “Ho imparato che a questo mondo ogni cosa ad ogni livello si sta deteriorando. È molto semplice per ognuno di noi sostenere che ‘nulla può essere fatto’. E in effetti questo è qualcosa di quasi vero e, allo stesso tempo, una totale menzogna. Perché per quanto funesta, drammatica, bloccata sia la situazione, c’è sempre qualcosa che può essere fatto”.
Oggi ci troviamo ancora una volta lì, di fronte al rebus del che fare. Affidarsi a un meccanismo istituzionale che si delinea come sempre più escludente? Allinearsi a un’idea di legalità che non lascia spazi di agibilità a chi non si conforma né al mercato né al mainstream culturale? O chiedere a gran voce che le norme tornino ad essere uno strumento per organizzare l’esistente, anche quando è minoritario, piuttosto che per sopprimerlo?
Un po’ come i bizzarri edificatori di castelli del racconto di Palahniuk, chi cerca di tenere in vita spazi e occasioni indipendenti di arte e socialità sembra impegnato, oggi, in un’attività senza senso. Almeno, senza un senso pratico. Eppure, se c’è una cosa che non è mai appannaggio delle burocrazie e delle normative è proprio la generazione del senso, che nasce sempre dalla materia viva delle comunità. E allora, l’unica alternativa alla fuga da un paese immobile e prossimo al disfacimento, è proprio non smettere di edificare castelli.
Fonte: minimaetmoralia.it
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