La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 20 maggio 2016

Sbilanciamo le città! Il buon governo come riforma

di Carlo Donolo
Gran parte dei problemi urgenti e acuti, ma anche cronici e difficili, del nostro Paese sono questioni urbane. E ciò sia perché in aree urbane o urbanizzate è concentrata la grande maggioranza della popolazione, con il suo carico di attese e di frustrazioni, sia per la storia lunga ma problematica dell’urbanizzazione, e sia anche perché le questioni urbane sono tra le meno comprese e trattate dalla nostra classe dirigente. Proprio per questo ora ci ritroviamo con un sistema urbano e con fenomeni di urbanizzazione carichi di deficienze, mali non gestiti, beni collettivi non prodotti, sprechi cumulativi. Questo sebbene proprio nel sistema e nell’esperienza collettiva urbana siano depositati tutti i potenziali di sviluppo e intelligenza collettiva di cui disponiamo per far fronte al futuro.
L’Italia come è noto vanta un grande patrimonio storico, una rete e una fenomenologia molto differenziata dell’urbano. Ci sono grandi città, piuttosto che vere metropoli, molte città medie con una lunga storia, centinaia di città storiche disseminate in territori tra i più variegati in Europa e anche – di recente – processi urbani diffusi a macchia d’olio, a partire dai margini delle città storiche, seguendo lo sviluppo reticolare degli assi viari più rilevanti, o spandendosi in territori in precedenza agricoli. È chiaro che i problemi si concentrano nelle città seguendo il gradiente della loro dimensione, per cui quando il sistema sociale e urbano acquista grande complessità, necessita di presupposti e risorse sempre più importanti, e spesso non locali, mentre gli abitanti generano una domanda di qualità sociale che poco o quasi mai viene soddisfatta.
Ci sono però anche problemi comuni. Tutto l’urbano in Italia è poco robusto e poco resiliente, e ciò perché lo sviluppo urbano ha accostato il patrimonio edilizio storico privo o quasi di manutenzione (specie scendendo a Sud e malgrado i progetti Urban) alle costruzioni recenti, soprattutto quelle degli anni ’50 e ’60, che costituiscono così tanta parte delle grandi periferie delle nostre città e delle conurbazioni. La componente più vecchia è fragile per definizione, mentre la più recente è di cattiva qualità, salvo eccezioni nelle aree che stanno adottando il modello “KlimaHaus” (CasaClima).
Queste caratteristiche intrinseche poco felici vanno viste nel contesto della crisi ambientale e climatica, che per territori fragilizzati come il nostro costituiscono delle vere sfide, sia nell’ambito della mitigazione dei rischi e dei danni (si pensi alle ricorrenti alluvioni a Genova), che dell’adattamento alle nuove condizioni ecosistemiche. In molte parti di Europa si sta già operando nella direzione della sostenibilità crescente dei processi urbani (intervenendo anche sul consumo di suolo), in parallelo all’evoluzione della questione energetica, mentre da noi vi sono solo sparsi accenni e niente di sistematico.
Tanto poco le nostre città sono rispondenti alle necessità del mutamento climatico, quanto poco lo sono anche in ambito sociale. La grande divaricazione sociale tra ricchi e poveri, con la crisi del ceto medio e della classe operaia, si riflette in città che diventano sempre meno giuste, coese e vivibili. Città ingiuste e anche poco sostenibili. E, nella maggior parte dei casi, poco dotate di strutture e servizi di qualità, tra il degrado del patrimonio ereditato e lo scarso investimento nel nuovo. Ci sono comuni virtuosi, per lo più piccoli, e ci sono città anche di medie dimensioni bene amministrate. Ma ovunque il passo è lento, pesante, di fronte alla duplice sfida di affrontare le questioni irrisolte accumulatesi in una lunga fase di inerzia.
Limiti e difficoltà del governo urbano 
Le città hanno problemi, spesso gravi, ma potenzialmente avrebbero anche le risorse per affrontarli, se solo volessero. Al livello di complessità cui siamo, globalizzati ormai nel profondo, esposti a tutti i cigni neri di questa lunga transizione finanziaria e tecnologica, le principali risorse necessarie per affrontare le questioni urbane stanno dentro le città stesse, e sono di natura cognitiva, operativa e normativa.
Abbiamo una difficoltà specifica di derivazione storica: malgrado tutte le innovazioni, il New Public Management, la sussidiarietà, la riforma del Titolo V e tante altre “riforme”, nell’insieme le macchine comunali sono messe male, e proprio con riguardo alle risorse virtuali indispensabili appena citate. Certo, in una città, specie se grande, arrivare a una visione condivisa dei temi urgenti da mettere in agenda è un processo difficile, e quelle miserie lo rendono impossibile, quando ci vorrebbe invece buona politica e molte virtù anche cognitive e deontologiche. Difficile che si avanzi molto in questa direzione, sebbene ci siano gli esempi positivi di Milano e se vogliamo anche di Torino, oltre che di tante piccole città.
Si può dire che il governo locale al più fa quello che può – stretto nella morsa di regole e procedure spesso troppo complicate per essere gestibili, tagli al bilancio, proteste civiche, lobbismi settoriali para-criminali, corporativismi, cumulo di problemi sempre in forma emergenziale: epitome di una sindrome nazionale –, anche se è evidente che questo fare è del tutto insufficiente per evitare piccole e grandi catastrofi future. È chiaro che c’è bisogno di rivedere l’intera infrastruttura istituzionale del governo urbano (con tutte le incertezze legate alla creazione delle città metropolitane), come giuristi autorevoli quali Cammelli e Urbani hanno da tempo argomentato.
Le debolezze delle macchine amministrative e i brutti vizi della politica spiegano poi le altre più o meno gravi difficoltà delle nostre città, che vanno sempre rapportate al contesto europeo e globale (competizione tra città e regioni, marketing territoriale imprenditoriale e turistico…) e alle sfide che esso ci propone. Tra queste aporie ricordiamo velocemente: lo sguardo a breve terminee lo sforzo richiesto, partendo da routine degradate, per assumere una prospettiva temporale all’altezza dei problemi reali e non contingenti; la frammentazionespesso estrema degli interventi, per non dire il carattere a volte sporadico e occasionale, per cui a piccoli problemi trattati bene o male corrisponde la crescita di problemi grandi e gravi ignorati. Pesa anche il rischio delladiscontinuità nelle agende tra una consiliatura e l’altra, come si è visto a Napoli e a Venezia, e si teme a Milano.
I piani urbani devono essere invece di media-lunga durata, per necessità e sostanza dei problemi, se si pensa alle reti, alla riconversione ecologica, al cambio radicale necessario in tema di mobilità urbana, alla questione ormai drammatica delle periferie (che in molte città stanno anche all’interno dei loro stessi centri storici).
Quali politiche?
Possiamo così passare a ricordare brevemente quali politiche sono richieste dalla situazione problematica attuale, e se sono praticabili. Data la natura dei problemi abbiamo bisogno di politiche urbane, cioè di una famiglia di politiche dedicate ai fenomeni urbani e metropolitani. Non si tratta separatamente di infrastrutture di trasporto, di raccolta differenziata, di politiche d’integrazione, di smartnesse altro. Ci vuole la capacità di formulare e implementare politiche che siano integrate, ovvero sappiano intrecciare materie e scale, strategiche, nel senso di adottare una prospettiva a medio-lungo termine per la città, e mobilitantidi tutte le risorse cognitive e operative disponibili, accuratamente fondate su dati di conoscenza e di esperienza. E occorrono politiche urbane che siano intrinsecamente sostenibili e mirate alla produzione di coesione sociale.
Non sono mancate certo le esperienze di politiche integrate strategiche e sostenibili, anche su impulso comunitario (da Urban ai Pit, dai Prusst alle Agende 21, fino ai Piani strategici e ai Contratti di quartiere): occorre quindi capitalizzare su tali esperienze, spesso risultate difficili, incomplete e malfatte, sui loro limiti ed errori, ma anche sui nuovi linguaggi e le competenze messi in circolazione, e portarsi avanti lungo le linee ormai ben segnate della sostenibilità nel mutamento climatico (Cop21, Parigi 2015), ispirandosi anche ai nuovi Obiettivi di Sviluppo Sostenibiledelle Nazioni Unite.
Gran parte delle raccomandazioni e delle proposte raccolte negli scritti che seguono, di cui questa prefazione serve solo da eco, si ispira a tali criteri e standard. Esse dimostrano che sulla città e i suoi problemi siamo capaci di ragionare, di farci delle idee progettuali, e che sono diffuse anche le competenze per metterle in atto. Si tratta quasi di un’accorata richiesta alla politica di farsi buon governo. L’incapacità di farvi fronte ricadrebbe come un macigno sulle opportunità delle future generazioni e insieme ci condannerebbe a convivere in una giungla d’asfalto dalla quale emergono talora come monumenti affondati le reliquie del passato glorioso delle nostre città.
Le nuove politiche richiedono buon governo e insieme la coalizione degli innovatori sociali, due condizioni indispensabili anche per sostenere la fase più difficile: quella dell’implementazione, dove molto si arena e sprofonda. Occorre concentrare, anche da parte delle nuove soggettività in formazione, più attenzione sulla fase attuativa, perché risulta essere la più difficile e la più contorta, e spesso è lì che si producono le aporie maggiori del governo urbano e la mancanza di responsiveness.
Città e cittadinanza
Torniamo al tema dei cittadini. Le nostre città attuali generano cittadini o solo city users(in senso metaforico esteso del termine)? Le zone della movida come i grandi templi del consumo sembrerebbero indicare che in città si viene addestrati soprattutto a essere buoni consumatori, altrimenti si finisce relegati in qualche periferia. È indubbio che passare da una realtà municipale a una grande città o a una città diffusa comporta un netto indebolimento del senso di appartenenza ai luoghi e una minore disponibilità a considerare l’insieme urbano come patrimonio comune. Tanto più quando politica e amministrazione forniscono quotidianamente argomenti al cinismo e all’apatia politica. Il civismo scarseggia in tutte le grandi città e metropoli del mondo e senza un po’ di senso di appartenenza è difficile ricaricare di motivazioni generose e lungimiranti il governo urbano.
La grande città ha forti difficoltà a diventare anche civitas, se non forse in qualche momento di grande calamità o di autorappresentazione simbolica (e retorica). Per contro si potrebbero ricordare gli infiniti movimenti urbani con i più diversi obiettivi, il diffondersi di buone pratiche, di “idee in comune” (come si chiamava un meritorio progetto romano ai tempi di Veltroni), una maggiore consapevolezza dei beni comuni, una crescente domanda di qualità sociale e una maggiore capacità di fare protesta informata (di voicedirebbe Hirschman). Talora coalizioni di questi attori di advocacy urbana riescono perfino a condizionare l’elezione del sindaco, a imporre l’abbandono di cattive pratiche, a rendere più trasparente la gestione della città. Molte di queste realtà sono radicate in luoghi specifici, e il quartiere in questo caso si rianima, e si può arrivare a interi pezzi di città mobilitati su qualche tema dirimente.
Anche le “sindromi Nimby” segnalano uno stato di conflitto con le istituzioni per domande insoddisfatte, elaborazione di una diversa idea del bene comune, una pretesa di partecipazione e coinvolgimento. È bene non illudersi sulla loro efficacia politica: si tratta pur sempre di realtà sporadiche, occasionali, di frammenti di civismo diffuso, eppure sono evidentemente il patrimonio per ogni possibile rinascita della civitas, nelle forme richieste dalle nuove dimensioni e tensioni dell’iperurbano contemporaneo.
Come dicevamo, nella città stanno le risorse per trattare i suoi stessi problemi. Si tratta di conoscenza, di competenze, di voglia di fare e innovare, di continua ricerca di nuove identificazioni, anche se spesso a carattere “tribale”. Si tratta di memoria dei luoghi, spesso depositata nelle generazioni anziane, e di progetti di futuro tra smartnessurbana, economia della conoscenza e della cultura. Si diffondono culture della sostenibilità quotidiana (si pensi al recente sviluppo dell’uso della bici, dello standard KlimaHaus, all’attenzione agli sprechi energetici e di materiale, all’economia del riciclo), come consapevolezza dei rischi che le spaccature sociali in atto possono costituire nell’impedire una soddisfacente vita urbana.
Si deve infine sperare che la generica e talora irresponsabile antipolitica come sentimento diffuso evolva in una maggiore cognizione degli obiettivi di benessere sociale, e non solo individuale, da perseguire e quindi della necessità di un buon governo politico della città, che in primo luogo è buona amministrazione. Ai candidati si chiede perciò non solo di essere personalmente puliti, che sarebbe il minimo (peraltro non facile da ottenere), ma soprattutto di essere capaci di governare la città, sia con visioni ampie e lunghe sia con atti concreti e quotidiani. Sono poche le città, soprattutto se grandi, che oggi possono vantare una simile condizione.
Per questo il ruolo dei conflitti urbani diventa più importante, come anche l’insieme delle “agitazioni” e delle mobilitazioni dal basso, che possono elaborare una domanda di città più esigente e premere sul governo urbano perché dismetta cattive prassi e risponda in concreto ai bisogni immediati e di lungo periodo dell’abitare. Ci sono soggettività urbane in formazione, cioè ci sono processi ed esperienze che formano nuove generazioni di cittadini. E ciò malgrado la città – con le sue aporie – renda oggi molto difficile le pratiche di cittadinanza.
La città è molto costruita e poco politica. Questo squilibrio va corretto, se si vuole entrare nel mutamento globale, inteso come intreccio di globalizzazione e mutamento climatico, con le carte in regola: avendo fatto cioè i conti con i problemi ereditati da un lungo passato ed essendo pronti a far fronte alle sfide imminenti.
Il buon governo come riforma
Il vero compito da proporre ai governi locali, specie delle città grandi o capoluogo, con molta popolazione e importanti funzioni territoriali, è di passare semplicemente al buon governo. Sembra facile, ma gli ostacoli sono tanti: non solo politici, molti anche giuridici, culturali, organizzativi. L’esercizio del buon governo urbano è la base per rendersi capaci di progetti più ambiziosi. Questi sono anche necessari, appunto perché la città è collocata dentro una grande trasformazione che la vede sia oggetto sia protagonista.
Si pensi al caso estremo di Taranto, da resuscitare dalle ceneri degli altiforni per un percorso di sviluppo sostenibile, o ai problemi più moderati della smartnessurbana, quando quest’ultima non venga vista solo come un nuovo mercato per gadget elettronici. Tutto ciò richiede il tipo di politiche cui abbiamo accennato e quindi un governo locale capace di buona amministrazione, efficiente ed efficace. E abbastanza intelligente da saper impostare le questioni della governance delle innovazioni che la città produce e insieme utilizza come principale utente.

Fonte: sbilanciamoci.info

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