di Stefano Lucarelli
Dinanzi all’instabilità finanziaria che continua a caratterizzare l’economia mondiale una riflessione sulla moneta internazionale può sembrare inattuale. Lo è senz’ombra di dubbio se ci si attiene alle dichiarazioni più recenti dei banchieri centrali: Janet Yellen e Mario Draghi sembrano giunti sulla soglia di un periodo nuovo, che in tutta probabilità sarà caratterizzato da difficoltà crescenti. Negli Usa le dichiarazioni di Yellen circa il rialzo dei tassi di interesse non generano più le reazioni sperate negli investitori; d’altro canto in Europa i bassi tassi di interesse fissati dalla Bce non si trasmettono all’economia reale. Guardare agli Stati Uniti e all’Ume basta a sollevare dubbi sulla possibilità di un coordinamento efficiente delle politiche monetarie su scala globale.
Un bancor di riserva
Lo stato in cui vertono i paesi che hanno attutito gli effetti della crisi trainando la domanda internazionale (Cina e Brasile soprattutto) non fa che aumentare le preoccupazioni. Eppure le condizioni che caratterizzano il sistema monetario mondiale non bastano ad illuminare le menti affinché nell’agenda politica emerga una riflessione adeguata per un piano che renda più fluido e ordinato il commercio internazionale, disarmando al contempo i finanzieri delle armi di distruzione di massa di cui dispongono. Appaiono lontanissimi i giorni in cui il governatore della Banca Popolare Cinese, Zhou Xiaochuan, invitava a progettare una valuta di riserva internazionale indipendente dalle singole nazioni e capace di rimanere stabile nel lungo periodo, eliminando così le carenze intrinseche che caratterizzano l’era del dollar-standard. Era il marzo 2009, e lo spirito di Keynes tornava ad essere evocato in modo esplicito sebbene con qualche inesattezza.
Infatti come emerge assai bene in un recente libro curato con passione e precisione da Luca Fantacci (John Maynard Keynes, Moneta Internazionale, Il Saggiatore, pp. 174, euro 17), il piano di Keynes prevedeva sì che il sistema internazionale si dotasse di una moneta consona ad evitare l’emergere di squilibri commerciali durevoli, e le conseguenti instabilità nelle relazioni di debito e credito fra paesi, tuttavia non prevedeva una valuta di riserva internazionale, ma una mera unità di conto (il bancor).
Oltre a questo ampio saggio introduttivo del curatore, il libro raccoglie sette testi redatti da Keynes fra il settembre 1941 e il marzo 1946. Al centro dell’opera si ergono maestose le «Proposte per una International Clearing Union» dell’aprile 1943, che vennero presentate a Bretton Woods, laddove invece prevalsero altri interessi: l’istituzione di una Banca di compensazione internazionale avrebbe consentito di finanziare il commercio fra stati senza richiedere un versamento iniziale.
Concentrazioni globali
La creazione effettiva di «bancor» sarebbe stata regolata dalla tempistica degli scambi e le aperture di credito sarebbero state commisurate al volume delle importazioni e delle esportazioni che caratterizzano la vita economica di uno stato. In caso di squilibri commerciali, l’onere dell’aggiustamento non sarebbe gravato solamente sulle spalle dei paesi debitori. «Il punto – scrive Keynes – è che non si dovrebbe consentire al creditore di rimanere del tutto passivo. Altrimenti, il paese debitore potrebbe essere gravato da un compito impossibile, ritrovandosi nella posizione più debole per il fatto stesso di essere debitore. E, di conseguenza, sopraggiungerebbero tutti i mali che ben conosciamo». Si tratta delle spinte deflattive cui i paesi debitori sono costretti, insieme alle riforme strutturali che di fatto legittimano le politiche mercantilistiche dei paesi creditori e – in un contesto di libera circolazione dei capitali – conducono ad un imponente processo di concentrazione finanziaria a vantaggio dei paesi che hanno accumulato surplus commerciali. Un problema che riguarda oggi l’Europa.
La ricetta keynesiana per il nuovo ordine monetario internazionale avrebbe potuto correggere queste tendenze pericolose, come tra gli altri segnalò sulle pagine di Le monde diplomatique nell’agosto 2013, l’economista e filosofo francese Fréderic Lordon: «il tutto potrebbe essere configurato secondo l’International Clearing Union proposta da John Maynard Keynes nel 1944, che, oltre alla possibilità di svalutazione offerta ai paesi con forti squilibri esterni, prevedeva anche di obbligare alla rivalutazione i paesi con forti eccedenti. In un sistema del genere, che vincolerebbe a delle rivalutazioni graduate attraverso una serie di soglie di eccedenti (per esempio del 4% del prodotto interno lordo, poi del 6%), la Germania avrebbe dovuto da lungo tempo accettare un apprezzamento del suo euro-marco, e con questo sostenere la domanda della zona euro, e quindi partecipare alla riduzione degli squilibri interni».
Il libero commercio
Ancora oggi vi sono delle ottime ragioni per ripensare l’organizzazione dell’Ume in linea con lo spirito che animò Keynes durante la battaglia di Bretton Woods: le risorse reali che con il surplus commerciale la Germania trasferisce all’estero potrebbero essere impiegate utilmente nel paese. Anche la pressione migratoria verso la Germania e i suoi satelliti potrebbero diminuire se le importazioni tedesche sostenessero una ripresa reale nei paesi periferici. Keynes diceva di essere un liberale dalla parte della borghesia colta, tuttavia le istituzioni monetarie finalizzate ad un commercio libero e equilibrato da lui progettate avrebbero ridimensionato il ruolo dei mercati valutari e finanziari; proprio la linfa del capitalismo odierno, che sull’instabilità finanziaria legittima le forme di espropriazione che stanno ridefinendo pericolosamente i confini della sovranità non solo monetaria.
Fonte: il manifesto
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