di Pierpaolo Farina
"La Questione Morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche." Così Enrico Berlinguer nella nota intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981.
Siamo in campagna elettorale, quindi non possiamo pretendere alcuna profondità di pensiero né di analisisu un tema che era ed è centrale nella vita pubblica italiana. Lo so, è triste, ma viviamo nell’epoca dei 140 caratteri, degli slogan, delle invettive su Facebook, ad uso e consumo degli istinti peggiori della folla che compone in maniera più o meno eterogenea gli schieramenti in campo. Per fortuna esistono ancora i blog, che permettono a qualcosa di durare e di essere buono per tutte le stagioni. Scrivo oggi, perché davvero non ne posso più di vedere tirato in ballo Enrico Berlinguer, utilizzato a seconda delle convenienza contro l’una o contro l’altra parte. Soprattutto, scriverò un articolo più lungo del normale, perché la questione è troppo importante per continuare ad essere trattata con tanta superficialità (quindi il lettore è avvertito).
Partiamo dal punto principale: la Questione Morale è una questione eminentemente politica, che non ha nulla a che vedere con la rilevanza penale di un comportamento. Se così fosse, sarebbe una questione giudiziaria, ma quest’ultima è competenza di imputati, giudici e avvocati difensori, mentre la Questione Morale riguarda eletti, elettori e qualità di una democrazia. E’ una questione che fa tutt’uno con la rilevanza politica di un comportamento di un esponente delle istituzioni: per questo non può essere regolamentata per legge, né si possono utilizzare i canoni della giustizia penale, perché quella che gli inglesi chiamanoaccountability (o responsabilità politica) è decisa dal livello di danno arrecato dall’eletto all’istituzione che rappresenta e quando si parla di reputazione di qualcosa, non si può valutare quantitativamente quanto incida un comportamento o l’altro, bisogna valutare caso per caso.
Diceva Enrico Berlinguer, in una nota Tribuna Politica del 15 dicembre 1981 (che ho trascritto 3 anni fa inCasa per Casa, Strada per Strada, insieme a tutti gli interventi rilevanti sul tema), che un politico sospettato di far parte di un’associazione a delinquere (allora si trattava della P2) non può sperare di essere assolto per insufficienza di prove da un tribunale, perché qualora fosse accertata una condotta lesiva della dignità delle istituzioni dovrebbe avere “il gusto, lo stile di dimettersi dalla politica e cambiare mestiere“. Berlinguer non era un giustizialista, non invocava la galera, le manette, il processo in piazza: non pretendeva le dimissioni immediate e irrevocabili ad un avviso di garanzia, che se si chiama così ci sarà pure un motivo. Semplicemente, da Politico valutava la rilevanza politica di un comportamento e pretendeva che una classe dirigente degna di questo nome si assumesse la responsabilità politica di quel fatto e ne rispondesse ai cittadini, spiegando, se poteva farlo, oppure dimettendosi, qualora la giustificazione fosse insostenibile e il danno di immagine arrecato alle istituzioni troppo forte.
Facendo un esempio pratico: frequentare mafiosi, stringere la mano a un boss, passeggiare con quest’ultimo per le vie di un paese quando magari si è candidati a una carica pubblica non ha nulla di penalmente rilevante: si può mettere in galera qualcuno perché, senza violare la legge, passeggia con un capomafia, magari incensurato? Ovviamente no. Eppure dal punto di vista politico questo comportamento, oltre ad essere moralmente inaccettabile, lo è anche politicamente, perché il candidato, pur di conquistare voti, si fa vedere in pubblico con il capomafia che ha un nutrito bacino di voti. Magari non farà alcun favore al capomafia, né compierà reati contro la pubblica amministrazione durante il suo mandato, ma il messaggio che viene dato ai cittadini onesti e perbene qual è? Che non è lo Stato a comandare e che quest’ultimo è semmai un mero oppressore fiscale e giudiziario, che magari quando arriva a sequestrare i beni e le aziende del capomafia porta solo disoccupazione perché fa arricchire gli amministratori giudiziari (come insegna la cronaca giudiziaria recente).
In soldoni, qualcosa che non è penalmente rilevante può esserlo politicamente, mentre non vale il contrario: una questione giudiziaria può assumere i contorni della Questione Morale quando riguarda un uomo delle istituzioni, ma al di là della sentenza di condanna è il comportamento politico in sé che va valutato nella sua interezza. Se è accertato ad esempio che l’uomo politico X ha fatto favori ai propri amici e dal punto di vista penale ciò era pienamente legittimo, lo si può accettare dal punto di vista politico? Ovviamente no, perché la Questione Morale riguarda proprio l’occupazione dello Stato da parte dei partiti e delle loro correnti e il mercimonio delle cariche pubbliche, nonché l’uso della propria posizione pubblica per favorire se stessi e i propri amici. Intendiamoci: all’estero il c.d. “patronato degli impieghi” (come lo chiamava Max Weber) è istituzionalizzato e ad ogni cambio di governo, cambia anche la burocrazia. Il problema italiano sta proprio nel fatto che i politici passano, mentre i burocrati (e i loro ex-portaborse, leccaculo e affini) restano e detengono un potere a volte superiore del ministro o del sindaco/presidente di Regione a cui dovrebbero essere sottoposti. Ne deriva poi che anche la trasparenza viene sacrificata sull’altare della realpolitik e aumenta il rischio di corruzione: ecco perché all’estero non si può rimanere più di due mandati a dirigere uno stesso ufficio e vige la c.d. “rotazione degli incarichi” nella pubblica amministrazione.
Enrico Berlinguer, quindi, non era un profeta. Semplicemente l’ex-leader del PCI, che non aveva affatto una formazione comunista classica, essendosi formato anche sugli illuministi, soprattutto francesi, vedeva meglio di molti altri il problema dell’occupazione della cosa pubblica da sempre più svariate cricche e centri di potere e i suoi effetti sulla democrazia. Quando sempre più partiti o loro correnti, infatti, si impossessano dello Stato e ne fanno un proprio feudo da spendere nel gioco democratico, la democrazia stessa viene alterata, truccata, finisce per lasciare spazio ad altro. Quante volte, al bar o tra amici, si sentono frasi del tipo “la politica è una cosa sporca”, “i politici sono tutti ladri”, “sono tutti uguali” e via discorrendo sulla strada di quella che per anni è stata definita, con ottusa miopia, “qualunquismo”, “antipolitica”, “demagogia”, e che invece altri non era che la conseguenza diretta degli effetti perversi che la Questione Morale produce?
C’è una cultura dietro queste frasi che ad ogni scandalo si allarga e si propaga, diffondendo nel cittadino la convinzione a negarsi il proprio diritto, andandoselo a cercare sotto forma di favore, pagandolo o con la famosa bustarella o, peggio ancora, con il voto all’amico dell’amico. Tutto ciò non fa altro che allontanare il cittadino dalle istituzioni, che diventano per lui un nemico, un oppressore, un’associazione a delinquere, le cui leggi sono vissute come ingiustizie a fronte dalla sistematica abitudine all’impunità di cui godono le classi dirigenti (politiche o meno).
Enrico Berlinguer tutto questo lo aveva capito e cercava di porvi rimedio, anzitutto dando l’esempio, praticando un’intransigente coerenza tra quello che diceva e quello che faceva: era convinto infatti che dietro ogni azione politica ci dovesse essere una precisa e rigorosa scelta morale in linea con i propri ideali, che nel caso specifico erano quelli comunisti.
Quando, dopo il terremoto dell’Irpinia, la questione morale viene definita la questione nazionale più importante e, soprattutto, diventa una discriminante per una qualsiasi alleanza di governo con chicchessia, socialisti compresi, nel Pci furono in molti a fargli la guerra, tant’è che dopo la sua morte questa battaglia venne rapidamente archiviata come un incidente di percorso. Il perché lo si capì qualche anno dopo: nel PCI c’era chi le tangenti le prendeva e aveva tutto l’interesse affinché il partito si uniformasse in maniera generale al sistema di potere di cui questi signori erano diventati parte integrante a livello locale. Come ha scritto Lucio Magri, il vero prezzo dell’unità nazionale non fu il 4% perso alle elezioni politiche del ’79, quanto il mutamento di natura del partito: il potere della politica si era trasferito dalle sedi di partito nelle mani dei sindaci, degli assessori, delle giunte regionali, che lo usavano per diventare parte integrante di quei meccanismi che a Milano come a Bologna portarono il Pci a perdere la sua “diversità”.
Berlinguer non era un moralista: era un uomo profondamente morale, nell’accezione kantiana del termine.Agiva perché pensava fosse giusto farlo. La denuncia della famosa “mutazione genetica” del PSI non aveva nulla a che vedere con la preoccupazione di un sorpasso, com’era avvenuto in Francia con Mitterrand ai danni del PCF: semplicemente la viveva come una ferita al cuore della sinistra italiana, agli ideali del socialismo, alla difesa dei più deboli e dei lavoratori. Lo fece, è vero, con una durezza forse insolita per lui, ma che testimonia il travaglio per quel “nuovo corso” del PSI che alla fine lo avrebbe portato, nemmeno un decennio dopo, all’estinzione.
Come ha scritto Giorgio Bocca, «forse il moralismo di Enrico Berlinguer era tardivo e velleitario, ma il pragmatismo affaristico di Craxi era una vergogna che noi liberalsocialisti, noi azionisti abbiamo vissuto con stupore e pena, sin dal giorno della unificazione e della pubblica presentazione del nuovo partito craxiano “dei nani e delle ballerine”. I Borrelli, i Di Pietro dovevano, per così dire, ancora nascere e il partito di Craxi delle tangenti e degli assessori era già in piena metastasi, raccoglieva tutti gli avventuristi e opportunisti dei famosi ceti emergenti, li radunava in congressi hollywoodiani, ma nel contempo svuotava le sezioni di partito.»
Per rispondere poi a quanti hanno estrapolato le frasi di Berlinguer sul monocameralismo del 1980, estrapolato dal contesto, dato che era legato al mantenimento di una legge proporzionale pura, riporto tre paragrafi dell’articolo pubblicato postumo su Rinascita il 16 giugno 1984 (integralmente pubblicato sempre in Casa per Casa, Strada per Strada), dove Berlinguer esprime il proprio giudizio sulle “riforme” istituzionali messe in campo dal Governo Craxi (che rispecchiano quelle fatte oggi da Matteo Renzi e sodali), intrecciandolo proprio con la Questione Morale:
Anche la irrisolta questione morale ha dato luogo non solo a quella che, con un eufemismo non privo di ipocrisia, viene chiamata la Costituzione materiale, cioè quel complesso di usi e di abusi che contraddicono la Costituzione scritta, ma ha aperto anche la strada al formarsi e al dilagare di poteri occulti eversivi (la mafia, la camorra, la P2) che hanno inquinato e condizionano tuttora i poteri costituiti e legittimi fino a minare concretamente l’esistenza stessa della nostra Repubblica.
Di fronte a questo stato di cose, di fronte a tali e tanti guasti che hanno una precisa radice politica, non si può pensare di conferire nuovo prestigio, efficienza e pienezza democratica alle istituzioni con l’introduzione dicongegni e di meccanismi tecnici di dubbia democraticità o con accorgimenti che romperebbero anche formalmente l’equilibrio, la distinzione e l’autonomia (voluti e garantiti dalla Costituzione) tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, e accentuerebbero il prepotere dei partiti sulle istituzioni.
Riforme delle istituzioni volte a ridare efficienza e snellezza al loro funzionamento sono certo necessarie. Ma esse a poco servirebbero se i partiti rimangono quello che sono oggi, se seguitano ad agire e a comportarsi come agiscono e si comportano oggi, se non si risanano, se non si rigenerano, riacquistando l’autenticità e la pienezza della loro autonoma funzione verso la società e verso le istituzioni.
Ecco, il problema della Questione Morale è proprio questo: finché i partiti continuano ad essere quello che sono, sempre più gente resterà a casa e sempre più la democrazia affonderà in una palude. Possiamo permettercelo? No. Nell’intervista a Scalfari, Berlinguer chiuse dicendo: “Un giornalista invitò una volta a turarsi il naso e a votare Dc. Ma non è venuto il momento di cambiare e di costruire una società che non sia un immondezzaio?“
Ecco, non è forse l’ora?
Fonte: Qualcosa di Sinistra
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