di Valerio Evangelisti
I morti sul lavoro sono ogni anno, in Italia, circa un migliaio. Pare il bilancio di una piccola guerra civile. Non tanto piccola, se si sommano alle vittime dirette le altre, disseminate sul territorio. Colpite, avvelenate, infettate da fumi, esalazioni, residui chimici diffusi dalle attività produttive. Alle origini di ogni morte vi è sempre una negligenza, un risparmio sui sistemi di sicurezza, un calcolo di restrizione dei tempi per incrementare i profitti. Atti letali compiuti al riparo di giustificazioni all’apparenza inoppugnabili: la fatalità, l’urgenza della crescita, la concorrenza, il lesinare sui costi in tempi di crisi. Se qualcuno ne viene schiacciato, sarà sempre possibile scaricare la colpa sulla sventatezza del morto o del mutilato. Oppure classificare l’evento tra i “danni collaterali” della sacra battaglia per il progresso.
Per questo parlavo di guerra civile. Combattuta tra minoranze di sfruttatori armate fino ai denti, da un punto di vista politico, istituzionale e legale, e maggioranze disarmate, che qualcuno ha votato al sacrificio.
Sembra di essere tornati ai tempi de Il tallone di ferro di Jack London. Allora un’opera letteraria aprì gli occhi a molti. Chissà che questa piccola antologia di realistici orrori non risvegli a sua volta, nei suoi limiti di diffusione, qualche coscienza. Preambolo a un assioma: di fronte a un massacro sistematico ogni rassegnazione è colpa. Ogni rivolta è lecita.
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Dormivano lì, dove lavoravano. Lavoravano finché c’era da lavorare. Lavoravano dietro alle consegne anziché agli orari. Un soppalco abusivo in cartongesso. Un soppalco abusivo con tante piccole stanze. Tante piccole stanze e i letti, lì nel soppalco. Tutto intorno stoffa, tessuto, tanto, ovunque, pieno. Sette operai morti. Sette operai soffocati e poi carbonizzati. Sette operai in pigiama, svegliati dall’incendio. Sette operai che in quel momento non erano operai, ma persone che dormivano. Sette operai cinesi in un capannone a Prato. Sette morti. Un’unica uscita verso l’esterno troppo lontana da dove si dorme. Si deve scendere le scale e uscire dal lato opposto. Troppo lontana. Uno lo trovano con un braccio penzoloni alla finestra con le sbarre. Le scale dal soppalco, il fumo, il fuoco. Non si respira e non si esce. Non si esce, per uscire è tutto lontano o sbarrato.
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Sul piazzale della Cooperativa stradini e muratori ferve l’attività frenetica che precede i trasferimenti ai cantieri. Gli operai fuorisede, appena scesi dai pulmini, hanno facce stravolte, gli occhi gonfi, i capelli dritti. Alcuni si alzano alle quattro per percorrere fino a 150 km per venire al lavoro. Qualcuno addenta un panino alla mortadella, diffondendo un odore appetitoso intorno a sé.
Entro nella sala dei camionisti, già gremita. Il fumo è acre, c’è anche quello sfigato del Ramarro che fuma il Toscano, gli scoppiasse il cuore.
I soliti saluti: «Dai Trapattoni, muoviti, che il Carnivoro aspetta solo te» bela uno degli autisti-cortigiani con un ghigno. Mi chiamano Trapattoni, chissà perché. Io somiglio all’allenatore di calcio come Gad Lerner assomiglia a Giuliano Ferrara, ma un giorno al Carnivoro è venuta l’idea di appiopparmi questo soprannome, e la parola del Carnivoro è legge qua dentro.
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Quello che non avevamo previsto però fu che l’arrivo dei giornalisti aveva infastidito anche la popolazione locale italiana, che si cominciò a radunare per bloccare il traffico sulla via Domiziana. Volevano che i giornalisti prendessero anche la loro versione. E la retorica, inutile dirlo, era sempre quella: non ce la facevano più, troppi stranieri, lo stato che non c’è, eccetera eccetera… Questa manifestazione d’italiani residenti, tuttavia, fu a sua volta una provocazione per la popolazione straniera, che cominciò di nuovo a scaldarsi. Alcuni migranti alzarono una barricata, a cui gli italiani risposero con un’altra barricata. La strada principale di Pescopagano, la vena che divide la città in due e l’attraversa da un capo all’altro era divisa in due, barricata degli italiani e barricata degli africani.
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E avrei voluto avere il tempo per fare un figlio, che prima non lo fai perché sei troppo giovane, poi non sei abbastanza incosciente, perché per mettere un figlio al mondo con mille euro di stipendio precario che neppure sai se e quando ti arriva, che dalla cooperativa ti possono licenziare ogni 31 dicembre di ogni disgraziato anno che manda il buon Dio, che gli straordinari non te li paga nessuno ma te li chiedono tutti e invece dei soldi ti danno ore che vanno a recupero, ti dici che prima o poi le prenderai e ti riposerai… e invece finisce che non ti riposi mai, ecco, con un lavoro così ci vuole una certa dose d’incoscienza a immaginare un figlio. E alla fine arrivi a quell’età in cui non lo fai più perché volevi fare il padre, mica il nonno.
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Per arrivare in città ha fatto un viaggio lunghissimo, durato giorni. Prima il mulo, poi il peschereccio, poi il treno. Il treno correva nella notte e lui pensava che non sarebbe mai arrivato. In bocca il gusto forte della grappa che un amico gli aveva dato prima di partire, negli occhi immagini distorte che emergevano dal buio di una notte troppo lunga. Era arrivato di mattina presto; l’aria sapeva di ferro e i tram sferragliavano lungo strade ancora deserte. Gli erano sembrate tutte uguali: palazzi a destra, palazzi a sinistra e proprio nel mezzo due fila di alberi. Immobili. Grigi. Polverosi.
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Il Bottecchi, ogni inizio turno, lo trovi in sala fumo che aspetta. Se poi ha vinto il Milan, ce lo puoi trovare già dalle prime ore dell’alba; a volte anche se fa il secondo turno.
Oggi è lunedì e io faccio il primo. Mi alzo che sono le quattro e mezza, fa un freddo cane. Butto un occhio fuori dalla finestra: Milano è una coltre di nebbia, come sempre in questa stagione. Il pensiero che tra poco ci camminerò dentro mi fa rabbrividire la schiena. Mi sono alzato un po’ prima oggi, ieri la mia Inter ha stravinto il derby e non vedo l’ora di beccare il Bottecchi. Abbiamo scommesso il caffè e già ne sento l’aroma.
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Io odio.
Odio la persona che mi è seduta di fronte. Ai suoi fianchi è schierato un arsenale di sottoposti pronti a negare ogni evidenza, a contraddirsi senza esitare. Assecondano qualsiasi ingiustizia. Lo fanno per preservare il proprio miserabile ruolo. Sono i miei superiori eppure sono servi. La fama gli deriva dall’elasticità con la quale bbediscono d’istinto, abbassano la testa. Io li odio. Ma il mio sentimento non si ferma alle persone. Odio i mobili in questo ufficio, i telefoni sulle scrivanie, l’odore dei fascicoli, i monitor, le sedie imbottite che accolgono le membra dei dirigenti, gli orologi ai loro polsi e gli orecchini che pendono dai lobi, le scarpe lucide, le cravatte e i tailleur. Mi processano e io mi difendo da una contestazione d’addebito con la quale mi hanno sospeso da lavoro due settimane fa. Dovranno stabilire la sanzione più adeguata a punire la mia condotta.
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Vicino a me si sedette un ragazzo con la barba malfatta, che avrà avuto venticinque anni e indossava un bizzarro maglione arancione. Sembrava nervoso, forse pensava guarda come sono ridotto male, mi ritrovo in mezzo a questi ragazzini. Io dimostravo di meno dei miei diciotto anni e c’era un altro gruppetto di giovanissimi, dai comportamenti infantili, si conoscevano tra loro e ridevano rumorosamente, sembravano un po’ una scolaresca. Il signore con la cravatta parlò per una decina di minuti, aveva il tono entusiasta dei predicatori quando ci spiegava che eravamo stati veramente fortunati ad aver intercettato quell’annuncio.
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Sì, avete letto bene. Era il 1906 e il tribunale di Torino stava per esprimersi riconoscendo la pericolosità dell’amianto. Se vi state chiedendo per quale ragione nei decenni a venire tutti hanno negato l’idea della nocività di questo minerale, dovete solo seguire passo per passo tutta la vicenda. Cominciamo dal tribunale e arriveremo alla medicina. Anzi, cominciamo dagli operai e dalle loro proteste. Nella primavera dell’anno 1906 scoppiarono diversi scioperi operai in parecchie manifatture. Fra coloro che scioperarono vi furono gli operai addetti a due fabbriche di lavorazione dell’amianto di Nole Canavese (TO), cioè la Bender e Martiny e la British Asbestos Company. Gli scioperi terminarono con la concessione di migliori condizioni di lavoro e il blocco di alcuni licenziamenti.
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Alessio è un ragazzo in gamba. Ha trenta anni, è laureato in scienze politiche e ha fatto un master sul welfare e le politiche sociali. È uno di quei ragazzi che, sin da piccoli, hanno sempre pensato che il mondo fosse qualcosa che può essere modificato. Il mondo come spazio del possibile, non come gabbia rigida, che ti obbliga a fare certe cose. E quella possibilità diventa dovere, quando senti che ci sono delle urgenze in cui entrano in gioco la vita e la morte, lo sfruttamento, la dignità di persone in carne e ossa.
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Beati quelli che precipitano dal tetto di un capannone che cede all’improvviso, beati quelli che vengono schiacciati dal carrellino elevatore che stavano guidando, beati coloro che vengono investiti da frane di materiale edilizio nei cantieri abusivi, beati coloro che vengono trascinati e stritolati dai nastri trasportatori, beati i camionisti che rimangono ustionati mentre controllano l’olio, quelli schiacciati tra la motrice e il proprio mezzo, beati coloro che scendono nei pozzi per lo scarico delle acque reflue e soffocano a causa delle esalazioni tossiche, beati i soffocati da un incendio improvviso in una fabbrica-garage di materassi, beati i bruciati vivi,
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Scendo dal treno e mi lascio catturare dal cielo. Il tramonto di Taranto trascina sulla pelle la nostalgia delle serate africane. La malinconia alimentata dalla bellezza. Surreale questa città. Scenario di una guerra silenziosa. Arrogante. Cinica. Combattuta da una sola parte, quella del capitale. Sul fronte opposto si contano i caduti. Morti sul lavoro, martoriati dal cancro. Inchiodati sulla croce del profitto.
Sono qui per scrivere un reportage. Un’inviata al fronte. Approfitto dell’occasione per rivedere Claudia. Dopo oltre trent’anni. L’ho ritrovata giorni fa su Facebook. Una piacevole combinazione.
E’ in uscita l’antologia Mai senza rete, un’opera collettiva di racconti dedicati al lavoro, la sicurezza, la salute, l’ambiente. E’ stata commissionata dalla onlus Rete Iside, fondata dal sindacato USB, che si occupa di assistenza e interventi sociali. Gli autori Simona Baldanzi, Mauro Baldrati, Gian Luca Castaldi, Collettivo Sabot, Annamaria Fassio, Cristian Giodice, Marco Martucci, Alessandro Pera, Alberto Prunetti, Giacomo Pisani, Christian Raimo, Paola Staccioli e Pia Valentinis hanno raccontato con parole, immagini e sensibilità diverse il mondo del lavoro, le difficoltà, la fatica, i rischi per l’incolumità e la salute, l’emarginazione, la frustrazione. Il testo sopra è una nota del direttore di Carmilla e un estratto che consiste in brevi campionamenti di ciascun racconto.
Il libro è pubblicato dall’editore Marotta & Cafiero, Napoli 2016, e sarà presentato domani, venerdì 20 maggio a Bologna alla libreria Modo Infoshop di Via Mascarella 24/b alle ore 18.30. Saranno presenti due autori di racconti, Marco Martucci e Mauro Baldrati, Luigi Marinelli di USB e Pina Zechini, che coordinerà il dibattito e il reading.
Fonte: Carmilla online
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