La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 18 maggio 2016

La crisi dell'Ue tra guerre e migrazioni

di Antonio Lettieri
Una delle bizzarrie più sorprendenti di Donald Trump, ormai sicuro candidato repubblicano alla Casa Bianca, è stata l’impegno di erigere un muro di 3000 km fra gli Stati Uniti e il Messico, dall’oceano Atlantico al Pacifico, per arginare il flusso migratorio fra i due paesi. Una proposta analoga risale a George Bush, ma fu abbandonata perché giudicata troppo costosa. Trump, per rassicurare i suoi potenziali elettori, ha spiegato che il muro dovrà essere eretto a spese del Messico. Tutto questo può apparire surreale. Ma in Europa i muri e le barriere di filo spinato sono all’ordine del giorno. Con una differenza non secondaria. Negli Stati Uniti la proposta di Trump è considerata concretamente inattuabile, e politicamente ripugnante. E, non a caso, Barack Obama contrappone alla linea della deportazione verso i paesi d’origine degli immigrati ”irregolari” la concessione della cittadinanza a una grande parte degli undici milioni di migranti che sono giunti, o si sono trattenuti, negli Stati Uniti senza un valido permesso.
1. Il dibattito sulle migrazioni rispunta periodicamente come un fungo velenoso sulla scena politica. Ogni volta il fenomeno appare nuovo e carico di minacce. Si dimentica che le migrazioni sono state e continuano a essere il motore dello sviluppo dell’economia mondiale.
Gli Stati Uniti sono diventati nel XX secolo la maggiore potenza economica del pianeta in virtù di un flusso pressoché ininterrotto di immigrazione innanzitutto dall’Europa, poi dall’Asia e dall’America latina.
La Germania è diventata la maggiore potenza economica europea aprendo le porte prima ai migranti del sud dell’Europa, poi a milioni di migranti dell’est dopo la caduta del muro di Belino.
L’unica grande potenza industriale chiusa alle migrazioni è il Giappone che vive ormai da un quarto si secolo in un clima di sostanziale stagnazione economica e di drammatico squilibrio demografico dovuto all’invecchiamento della popolazione.
I grandi flussi migratori non sono casuali. Il movimento è orientato da ragioni che riflettono la situazione economica e del mercato del lavoro: in altri termini,la possibilità effettiva o percepita per i migranti di migliorare la propria condizione di vita, sia pure sottoponendosi ai sacrifici e alla durezza che la condizione di migrante comporta. Non a caso, gli immigrati, se si esclude un’élite di intellettuali e uomini d’affari, occupano i segmenti del mercato del lavoro meno qualificati e peggio pagati, dall’agricoltura alle costruzioni, ai lavori più pesanti dell’industria, ad alcuni tipologie di servizi e alle collaborazioni domestiche. L’Ocse pone l’accento su un aspetto spesso dimenticato o percepito in termini rovesciati. Essendo in misura prevalente giovani ed economicamente attivi, gli immigrati forniscono “sotto il profilo delle tasse e dei contributi previdenziali più di quanto ricevono sotto forma di benefici sociali”. 
2. Ma le migrazioni per ragioni economiche non sono l’unico modello storico. La storia europea ha conosciuto processi migratori dovuti non a ragioni economiche ma politiche: migrazioni forzate, originate alle persecuzioni religiose e politiche. La diaspora degli ebrei ha una storia antica. Il primo ghetto, un’area espressamente destinata agli ebrei, fu istituito nella Venezia dei Dogi. Gli esempi di migrazioni politiche si sono moltiplicati nel XX secolo, inizialmente con la dissoluzione dei vecchi imperi austro-ungarico e ottomano, poi con l’instaurazione dei regimi fascisti.
La distinzione tra il modello economico delle migrazioni e quello politico era sufficientemente chiara. Ancora nel secondo dopoguerra, milioni di italiani, soprattutto meridionali, emigravano in Francia, Svizzera, Belgio, Germania non certo per ragioni politiche, ma per cercare un lavoro e guadagnare un salario che con le rimesse serviva a far vivere la famiglia rimasta nelle terre di origine.
Possiamo oggi operare – come si propone a livello istituzionale e da parte di alcuni esperti ed economisti - una distinzione altrettanto netta rispetto ai processi migratori che hanno messo in crisi l’Unione europea? Per molte ragioni, la contrapposizione si presenta, nelle condizioni presenti, ingannevole e fuorviante. Vediamo perché.
Negli ultimi venti anni i flussi migratori verso i paesi dell’Unione europea sono stati sostanzialmente costanti. Quella che oggi si presenta come un’emergenza ha preso corpo negli ultimi due anni. Nel 2015 il flusso migratorio dal Medio Oriente verso l’Unione europea è triplicato. La ragione è essenzialmente nella tragedia della guerra civile siriana – mentre in termini relativamente stabili continua il flusso dall’Iraq e dall’Afganistan. 
Durante cinque anni di disastrosa guerra civile, cinque milioni di siriani sono sfollati cercando riparo all’interno del paese; altri cinque milioni hanno dovuto abbandonare le città, ridotte a miserabili scheletri da anni di bombardamenti, per cercare scampo nei paesi confinanti: oltre mezzo milione in Giordania; due milioni e mezzo in Turchia, un milione e mezzo in Libano, su una popolazione locale – si ricordi - di meno di quattro milioni e mezzo di persone - come dire venti milioni di rifugiati in Italia.
E’ ancora appropriata, è applicabile, in questo quadro, la distinzione fra le classiche tipologie delle migrazioni? Fino alla deflagrazione della guerra civile, i siriani non si caratterizzavano affatto come un popolo di migranti. Era vero il contrario. La Siria ha ospitato grandi masse di palestinesi, scacciati dalla Palestina, di libanesi e oltre un milione di iracheni, messi in fuga dalla più lunga guerra dell’era moderna.
Di fronte al drammatico esodo biblico di intere famiglie, quando non donne sole, rimaste vedove, o minori, orfani (secondo i dati riportati dalla stampa americana, cinquecentomila morti sono finora il tragico prezzo della guerra in Siria), la distinzione fra una tipologia e l’altra di migrazioni rischia di essere una pura astrazione intellettuale.
Non è un caso che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati usi congiuntamente i termini, scrivendo, per esempio, che «nel 2015, 292.000 rifugiati e migranti sono arrivati ​​via mare in Europa». A sua volta, L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) definisce la migrazione forzata come “un movimento migratorio in cui è presente un elemento di coercizione... incluso il pericolo per la vita e la possibilità di sostentamento”. E, non a caso, la Convenzione di Ginevra del 1951 promossa dalle Nazioni Unite, che espressamente fissa i principi che regolano la condizione di rifugiati, fa riferimento a “una protezione sussidiaria suscettibile di essere accordata a quelle persone che non possono rientrare nello statuto di rifugiati, ma che sarebbero a rischio se rinviati nei paesi d’origine”.
3. L’Europa non può esorcizzare le sue responsabilità rispetto al dramma mediorientale. La questione siriana è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Senza le guerre del nuovo secolo finalizzate all’esportazione della democrazia prima in Afghanistan e Iraq, poi in Siria e Libano, l’Unione europea non sarebbe oggi in uno stato di emergenza sotto la pressione dei processi migratori.
L’accordo mercenario con la Turchia, stipulato da un’Europa spaventata, percorsa da ondate xenofobe, dovrebbe erigere un muro virtuale contro i migranti provenienti dalle aree devastate dalle guerre. La Turchia assunta come una sorta di paese-prigione verso il quale l’Europa acquista il diritto di deportare i migranti ai quali si nega il diritto d’asilo. 
La Turchia dovrebbe, in cambio di sei miliardi di euro, provvedere a deportarli nei paesi d’origine o rinchiuderli nei campi di detenzione. Un accordo, aspramente criticato da tutte le organizzazioni umanitarie, indegno di una comunità di popoli che si dovrebbe ritenere civile, contratto con un governo autoritario che perseguita i curdi, sostiene più o meno apertamente l’Isis, condanna a lunghi anni di carcere gli oppositori, com’é è accaduto all’inizio di maggio a due giornalisti della stampa di opposizione. Per di più, un accordo fragile, come dimostra la rimozione di Davutoglu, il capo del governo che ha negoziato l’accordo con l’Ue, impegnandosi a realizzare un certo numero di riforme in cambio della liberalizzazione dei visti per la circolazione nell’Unione dei cittadini turchi, e della ripresa dei negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione europea.
4. Ma non basta. L’accordo con la Turchia è ora considerato un modello da replicare nei confronti dei paesi africani. In cambio di “aiuti” in denaro, il “Migration compact”, secondo la raffinata terminologia inglese tipicamente privilegiata da Matteo Renzi, dovrebbe consentire ai paesi dell’Unione di rispedire nei paesi d’origine i migranti approdati, a rischio della vita, sulle coste europee (in questo caso, principalmente sulle coste italiane). 
A quali paesi, infatti, si dovrebbe proporre un accordo di questo tipo? Alla Somalia, uno stato fallito? All’Eritrea, paese dominato da un’oscura dittatura, dal quale è difficile anche uscire? O alla Nigeria, con la quale si cerca di trattare, mentre le sue regioni del nord sono fuori controllo e in preda alla ferocia di Boko Aram, un movimento ispirato all’Isis? La retorica politica dei patti con governi spesso aguzzini di molti paesi africani non può mascherare i dati segnalati da un Rapporto dell’Onu del 2014, secondo il quale la regione sub-sahariana fa registrare un tasso di "povertà estrema" (intendendo un reddito di 1,25 dollari al giorno) fra i più alti del pianeta.
In ogni caso, vale la pena di ricordare che l’immigrazione dall’Africa è nei primi mesi del 2016 in riduzione. ”Gli arrivi di migranti in Italia per il 2016, secondo l’OIM, sono circa 32.000 contro i 47.500 nei primi cinque mesi del 2015”. Non c’è un’emergenza migratoria generale, se non nella propaganda xenofoba della destra che estende la sua presa in un’Europa senza bussola. In effetti, la questione migratoria, che spaventa l’Unione europea in crisi per ragioni più profonde, coincide con la questione mediorientale, e oggi più propriamente, siriana.
5. C’è una soluzione? L’Unione europea non ne ha finora offerta nessuna. La partita è passata nelle mani degli Stati Uniti e della Russia. Non possono sorprendere il rammarico e la critica, dura e venata di ironia, di Barack Obama nei confronti dei più bellicosi e irresponsabili fra i paesi dell’Unione europea. 
In una lunga conversazione-intervista con Jeffrey Goldberg di The Atlantic, quasi un testamento politico a valere per gli storici futuri della sua presidenza, Obama riflette sui disastri delle guerre mediorientali iniziate dal secondo Bush e proseguite sotto la sua presidenza. “Quando rifletto, afferma, su ciò che è successo chiedo a me stesso che cosa è andato storto”. E riferendosi al più recente episodio della Libia, si lascia andare a una significativa confessione. “C’è spazio per un riesame critico - dice. Avevo fiducia in una presa di responsabilità europea rispetto agli sviluppi della crisi, in considerazione della loro prossimità alla Libia”. Ma David Cameron presto se n’è disinteressato ”distratto da altri impegni”. E, quanto alla Francia, “Sarkozy voleva farsi bello (“trumpet”) della sua campagna aerea, quando avevamo già messo fuori uso le difese aeree (libiche) e provveduto alle infrastrutture (per un intervento)…. Questa sorta di millanteria ci andava bene (was fine)…In altre parole, scambiavamo la concessione di un maggior credito alla Francia con un’utile riduzione dei costi e dei rischi per gli Stati Uniti”. 
Emerge qui la volontà di Obama di evitare di cadere in nuove trappole di guerre nelle quali gli Usa siano in prima linea, dopo i disastri afghano e iracheno che aveva ereditato dal secondo Bush. Insomma, dal punto di vista americano, la Libia è servita da ammonimento per la questione siriana. Alla strategia europea ciecamente centrata sulla liquidazione di Assad - così com’era stato per Saddam e Gheddafi – Obama oppone nell’intervista citata che “la questione prioritaria non è Assad, ma l’Isis”.
Parte da qui la nuova strategia che rivoluziona la vecchia mappa americana delle relazioni diplomatiche nel Medio Oriente, e che Obama ha assunto, in contrasto con una larga parte dell’establishment statunitense. Una strategia centrata su tre mosse fondamentali: l’accordo con l’Iran, la presa di distanza dall’Arabia saudita (e dal governo israeliano di Netanyahu), e l’intesa con Putin per un’azione sostanzialmente concordata tra Kerry e Lavrov, i due responsabili della politica estera, rispettivamente, statunitense e russa. 
La soluzione del groviglio siriano rimane incerta e lontana, anche perché i vecchi amici dell’America di Bush aspettano l’uscita di scena di Obama e una presidenza più malleabile, come potrebbe essere quella di Hillary Clinton.
Ma ciò che rileva non sono le difficoltà oggettive di una soluzione dell’intrico dei conflitti mediorientali, dove i due maggiori contendenti, l’Arabia saudita insieme con gli emirati del Golfo, e l’Iran si contendono l’egemonia. L’aspetto più sconcertante è nell’autoemarginazione dell’Europa, dopo aver contribuito ad alimentare o essersi assunta la responsabilità diretta del magma mediorientale, con la pretesa insensata di esportarvi la democrazia.
La questione delle masse disperate di migranti e di profughi richiedenti asilo, provenienti dalla più tormentata regione del pianeta, com’è oggi il Medio Oriente, non può essere fronteggiata senza porre come obiettivo primario la soluzione del conflitto siriano. La liquidazione di Assad, che tanto sta a cuore a Francia e Gran Bretagna, non è la premessa di un negoziato di pace (in corso fra molte difficoltà a Ginevra), quanto un possibile risultato a più lunga scadenza.
Oggi le masse disperate di migranti e rifugiati pongono una questione umanitaria, e non dovrebbe essere solo Francesco a ricordacelo. Quando la guerra che ha devastato la Siria, ultimo anello della catena di guerre portate dall’Occidente nel Medio Oriente, troverà una soluzione, è del tutto prevedibile che molti migranti rientreranno nei paesi d’origine, dai quali la guerra, le distruzioni e la miserabilità delle condizioni umane li hanno scacciati.
Fino a qualche anno fa, il processo migratorio verso l’Europa ha sollevato recriminazioni e opposizione, ma delimitati a un’area delle destre, senza tuttavia diventare un’emergenza e senza occupare il centro del dibattito politico. Oggi è diventato la questione centrale. E, tuttavia, la questione migratoria non è la causa, ma piuttosto uno degli effetti della crisi dell’Unione Europea e, in particolare, dei paesi dell’eurozona. La Grecia rimane in piena emergenza e sull’orlo della fuoriuscita dall’euro; la Spagna è senza governo dopo l’emarginazione dei partiti che hanno guidato il paese alternandosi nel posto-franchismo; in Francia, il Fronte nazionale di Marine Le Pen è, secondo i sondaggi, il primo partito a livello nazionale. . 
La tragedia delle masse di migranti e profughi dovrebbe essere un’occasione non per elevare muri, ma per riflettere auto-criticamente sulle assurde politiche condotte nel grottesco tentativo di esportare la democrazia col risultato di avere creato un caos esplosivo di cui le migrazioni che mettono in crisi ciò che rimane dell’Unione europea costituiscono l’effetto e non la causa.

Fonte: Eguaglianza e Libertà 

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