di Pete Dolack
La Gran Bretagna può lasciare l’Unione Europea ma rimarrebbe legata ai mercati capitalisti esattamente come prima. La decisione di lasciare la UE non è una decisione di lasciare il sistema capitalista mondiale e nemmeno di disimpegnarsi dall’Europa e dunque non è una decisione che porterà a una qualsiasi “indipendenza” o “sovranità” aggiuntiva, salvo che nell’immaginazione dei promotori. A essere stati scatenati sono il nazionalismo e la xenofobia del “populismo” della destra; quelli che a sinistra stanno festeggiando un colpo contro le élite dovrebbero fare una pausa di riflessione.
Sì, votare contro quanto le élite hanno detto loro di fare ha giocato in parte a favore di un’uscita britannica dalla UE, ma sono stati dominanti il nazionalismo, il fare degli immigranti i capi espiatori e il convincere la gente alla mercé del potere dell’industria che minori regole sono nel suo interesse.
Sì, votare contro quanto le élite hanno detto loro di fare ha giocato in parte a favore di un’uscita britannica dalla UE, ma sono stati dominanti il nazionalismo, il fare degli immigranti i capi espiatori e il convincere la gente alla mercé del potere dell’industria che minori regole sono nel suo interesse.
E’ l’estrema destra che ha ricevuto una botta di adrenalina dalla Brexit, dal Fronte Nazionale in Francia e dal Partito della Libertà in Olanda, al Partito dell’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) e alla destra dura in seno al Partito Conservatore. Anche i blairiani del Partito Laburista sono stati rincuorati, come dimostra il colpo di stato parlamentare contro Jeremy Corbyn.
In nessun modo l’analisi di cui sopra è intesa a una qualsiasi difesa della UE. E’ un progetto neoliberista dalla testa ai piedi, un esercizio antidemocratico di potere industriale crudo per spogliare gli europei dei progressi e delle protezioni faticosamente conquistati nel corso di due generazioni. La UE ha una funzione simile al Trattato Nordamericano di Libero Scambio (NAFTA) sul lato opposto dell’Atlantico. I capitalisti europei aspirano alla capacità di sfidare gli Stati Uniti per la supremazia economica, ma non possono farlo senza il peso combinato di un continente unito. Questo desiderio è alla base della spinta antidemocratica a irrigidire costantemente la UE, compresi parametri obbligatori di bilancio nazionale che impongono il taglio di reti di sicurezza sociale e la forzatura di politiche mirate a spezzare la solidarietà tra i percettori di salario attraverso i confini, imponendo una concorrenza più dura mediante l’austerità obbligata.
Dunque dovremmo festeggiare qualsiasi cosa indebolisca la UE, vero? Forse. Se questo fosse il primo colpo a un edificio visibilmente cadente, allora certamente sì. Se ci fosse una sinistra continentale con una chiara visione alternativa alla globalizzazione industriale, allora enfaticamente sì. Ma non sussiste nessuna delle due condizioni, dunque è richiesta una reazione più cauta. Quella che è necessaria è la distruzione della UE, che la lascino tutti i paesi, non solo uno.
Di per sé l’uscita della Gran Bretagna determinerà un cambiamento molto minore di quanto sperano i promotori della Brexit, e non necessariamente in meglio. Il motivo è che le condizioni della competizione capitalista rimarranno intatte.
Norvegia e Svizzera sono fuori, ma in realtà dentro
I promotori della Brexit segnalano la Norvegia e la Svizzera come modelli di paesi fuori dalla UE ma che mantengono un accesso commerciale. Ma ciò che questi paesi hanno sono le responsabilità dell’appartenenza alla UE senza avervi alcuna voce in capitolo.
Tra i due la Norvegia ha il rapporto più stretto. La Norvegia (assieme all’Islanda e al micro-stato del Liechtenstein) fanno parte dell’Area Economica Europea (EEA), essenzialmente un accordo che vincola rigidamente quei tre paesi alla UE. L’EEA è stata descritta come una “cinghia di trasmissione” in cui la UE assicura che i paesi EEA adottino le leggi UE come prezzo per far parte dell’area di “libero scambio” della UE. E’ una trasmissione a senso unico. La Norvegia non ha voce in capitolo sulla creazione di qualsiasi legge o regolamento UE.
Il trattato EEA prevede la consultazione norvegese, ma la Norvegia non è rappresentata in alcun organismo della UE. L’accordo consente alla Norvegia di “sospendere” qualsiasi legge UE non gradita, ma la Norvegia lo ha fatto una volta sola. Per contro il parlamento norvegese ha approvato le leggi UE 287 volte, la maggior parte delle volte all’unanimità. Questa perdita di sovranità non sembra essere un problema per i leader politici norvegesi. Un’analisi norvegese dell’appartenenza alla UE condotta nel 2012 conclude:
“Questo suscita problemi di democrazia. La Norvegia non è rappresentata nei processi decisionali che hanno conseguenze dirette per la Norvegia, né abbiamo un’influenza significativa su di essi… La nostra forma di associazione alla UE smorza l’impegno e il dibattito politico in Norvegia e rende difficile controllare il governo e chiamarlo a rispondere della sua politica europea”.
Il presidente del comitato di analisi ha indicato che “non ci sono vantaggi per i politici norvegesi nell’impegnarsi nella politica europea … Poiché i politici non sono interessati alle politiche europee, i media non vi sono interessati e l’assenza di interesse mediatico rafforza l’assenza di interesse dei politici”.
La ministra degli Affari Europei nell’attuale governo norvegese guidato dal Partito Conservatore, Elisabeth Aspaker, conferma la facilità con cui il governo si adatta alla legge europea. La Norvegia, in effetti, si è impegnata a contribuire volontariamente con 2,8 miliardi di euro agli aiuti ai paesi UE più poveri nel periodo dal 2014 al 2021. In un’intervista a EuroActiv la ministra Aspaker ha detto:
“Crediamo sia nel nostro interesse migliorare la coesione sociale ed economica in Europa. Se l’Europa va bene, anche la Norvegia andrà bene. Se l’Europa è scarsa o destabilizzata avremo un impatto negativo sulla Norvegia e sull’economia norvegese. Dunque è questo il motivo per il quale dovremmo impegnarci oltre quanto è previsto dall’accordo EEA”.
La Svizzera ha un accordo separato con la UE che è essenzialmente un accordo di “libero scambio”. La Svizzera ha un po’ di spazio per non adottare le leggi della UE, ma in conseguenza alcune delle sue merci sono bloccate dall’esportazione in paesi UE. La Svizzera, comunque, è sotto pressione perché faccia ciò che la UE detta, e non solo Berna non è rappresentata; è persino priva della consultazione inefficace di cui gode Oslo.
La Gran Bretagna continuerà a pagare ma non avrà voce
La Gran Bretagna sarà davvero liberata dai trasferimenti a Bruxelles come ha proclamato a gran voce la campagna per l’uscita, dominata dalla destra Tory e dall’UKIP, prima del referendum? La loro immediata marcia indietro al riguardo, e riguardo all’implicita promessa di un’immigrazione considerevolmente ridotta, offre un indizio importante. Il Centro per la Riforma Europa, un gruppo neoliberista di esperti che si dichiara a favore dell’integrazione europea, in un’analisi comunque sobria, dichiara che la Gran Bretagna pagherebbe un importo considerevole per conservare l’accesso ai mercati europei. Nel suo rapporto “Fuori ma dentro: lezioni della Svizzera e della Norvegia per il Regno Unito”, il Centro scrive:
“La Gran Bretagna dovrebbe anche pagare un prezzo finanziario, oltre a un prezzo politico, per conservare l’accesso al mercato unico. Come paese relativamente ricco ci si aspetterebbe presumibilmente che pagasse contributi speciali alla coesione e ai programmi di aiuti della UE su una base simile a quella dei norvegesi e degli svizzeri. Attualmente la Norvegia versa 340 milioni di euro l’anno alla UE. Moltiplicati per 12, in ragione della popolazione molto più vasta della Gran Bretagna, quella percentuale implicherebbe un contributo del Regno Unito di appena sopra i 4 miliardi di euro, cioè quasi metà del suo attuale contributo netto al bilancio della UE nella sua qualità di membro a pieno titolo. E’ parecchio da pagare per lo status di associata al circolo”.
E’ possibile lamentare che quanto precede è un prodotto di un’ottica filo-UE, ma farlo ignorerebbe che il fermo posto della Gran Bretagna nel sistema capitalista mondiale, la collocazione geografica e i modelli commerciali impongono che conservi il suo accesso commerciale all’Europa. Le rimesse di una Gran Bretagna post-Brexit a Bruxelles potrebbero essere maggiori anche di quanto ipotizzato dal Centro per la Riforma Europea. Un’analisi di Open Europe calcola che il contributo netto della Norvegia alla UE è pari a 107 euro a persona, mentre il contributo attuale della Gran Bretagna è di 139 euro a persona. Può non essere realistico aspettarsi che un futuro contributo britannico sia considerevolmente inferiore a quello della Norvegia.
Inoltre l’analisi di Open Europe indica che l’immigrazione lorda in Gran Bretagna è considerevolmente inferiore a quella di Norvegia, Svizzera e Islanda. Ciascuno di quei paesi accetta il libero flusso di persone (assieme a merci, servizi e capitali) allo stesso modo di ogni membro della UE. Le tattiche di spauracchio dell’UKIP e della destra Tory sono state semplicemente ciò, delle tattiche. E la promessa dei promotori della Brexit del ritorno a un’età dell’oro e le tattiche di spauracchio degli avversari della Brexit a proposito dell’imminente giorno finanziario del giudizio? Un distinto rapporto di Open Europe rileva che la più probabile portata del cambiamento sul PIL britannico sarebbe compresa tra un meno 0,8 per cento e un più 0,6 per cento entro il 2030.
Non un gran cambiamento. Il livello superiore di tale modesto intervallo presuppone che la Gran Bretagna adotti una “liberalizzazione unilaterale” con i suoi principali partner commerciali poiché il “libero scambio” offra il “beneficio maggiore”, afferma il rapporto di Open Europe. Ma studi che pretendono di dimostrare i benefici degli accordi di “libero scambio” tendono a sovrastimare enormemente la loro tesi mediante assunti speciosi. Spesso partono da modelli che presuppongono che la liberalizzazione non causi o aggravi la disoccupazione, la fuga di capitali o gli squilibri commerciali, e che capitale e lavoro passeranno senza problemi ai nuovi usi produttivi sotto le forze sicure del mercato.
Così gruppi come il Peterson Institute se ne vengono invariabilmente fuori con previsioni rosee circa gli accordi di “libero scambio”, compresi dati fantasiosi circa l’Accordo Nordamericano di Libero Scambio e il Partenariato Trans-Pacifico che ignorano la realtà della perdita di posti di lavoro e il conseguentemente trascinamento dei salari al ribasso. Così forse non sorprende che le predizioni più rosee qui siano che la Gran Bretagna si spalanchi ai mercati mondiali, come se la Gran Bretagna non fosse giù uno dei paesi più liberalizzati del Nord globale.
Ci sono bugie e poi ci sono bugie vergognose
Un genere diverso di mancanza di realismo ha pervaso la campagna per la Brexit, e il dichiarato desiderio dei suoi promotori di restare nel mercato unico europeo ha sicuramente a che fare con la loro rapida marcia indietro. Boris Johnson, un portavoce di vertice della Brexit e possibile successore di David Cameron, è stato certamente molto più cauto nel suo articolo sul The Telegraph dopo il 26 giugno, di quanto non lo sia stato durante la campagna. Ha affermato, contro ogni evidenza, che i timori a proposito dell’immigrazione non sono stati un fattore della campagna, che l’economia britannica è “straordinariamente forte” e che “nulla cambia”, salvo un addio alla burocrazia europea. Raramente assistiamo a così tante menzogne palesi in un unico articolo.
La reazione sull’altra sponda della Manica è illuminante. Un articolo del Der Spiegel, indubbiamente riflettente la posizione ufficiale della Germania, si chiude dichiarando: “I britannici hanno scelto l’uscita; ora devono subirne le conseguenze”, con un favorevole riferimento all’intransigente Ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Il Guardian, citando diversi diplomatici europei, ha scritto:
“’E’ un sogno irrealizzabile’ ha detto un diplomatico UE. ‘Non si può avere pieno accesso al mercato unico e non accettarne le regole. Se concedessimo un simile accordo al Regno Unito, allora perché non all’Australia o alla Nuova Zelanda? Sarebbe una bolgia’.
Un secondo diplomatico UE ha detto: ‘Non ci sono preferenze; ci sono principi e il principio è che non si fanno differenze.’
Il diplomatico ha sottolineato che partecipare al mercato unico significa accettare le regole della UE, tra cui la giurisdizione della Corte Europea di Giustizia, il monitoraggio da parte della Commissione Europea e l’accettazione del primato della legge UE sulla legge nazionale, condizioni che saranno un anatema per i promotori dell’uscita che ha condotto la campagna all’insegna di ‘riprendiamoci il controllo’ ”.
Nessuna meraviglia che nessun Tory paia ansioso di avviare i negoziati. Forse “più della stessa cosa, con meno influenza” non soddisferà le aspettative di chi ha votato a favore dell’uscita britannica dalla UE. Certamente l’ideologia industriale ha fatto bene il suo lavoro nel convincere alcuni che l’abbandono delle comunità da parte delle imprese non è colpa delle imprese che se ne vanno, né del capitalismo che premia tali abbandoni. Si consideri questo brano sul The New York Times del 28 giugno, che cita un operaio di una città inglese che ha votato pesantemente per l’uscita:
“ ‘Tutte le industrie, tutto è sparito’, ha detto Michael Wake, 55 anni, un operatore di muletto, indicando Roker Beach, un tempo nera della fuliggine dei cantieri navali. ‘Eravamo potenti, forti. Ma Bruxelles e il governo … loro ci hanno portato via tutto.’ “
Naturalmente responsabile dello svuotamento di Sunderland, Inghilterra, e di così tante città industriali simili è l’incessante pressione competitiva del capitalismo, sempre pronto a trasferirsi nei luoghi con salari inferiori e regole più deboli. L’adesione della Gran Bretagna alle norme UE sulla mobilità illimitata dei capitali, come prezzo per conservare i suoi collegamenti commerciali europei, avrà un effetto esattamente pari a zero su tale dinamica, e l’adesione della Gran Bretagna ad accordi di “libero scambio” quali ilPartenariato Trans-Atlantico su Commercio e Investimenti, o ad accordi simili, non farà che accelerarla. Sono i governi a firmare tali accordi, è vero, ma agiscono sotto la costrizione di industriali e finanzieri potenti dentro e fuori dai loro confini, concedendo sempre maggiore sovranità al capitale multinazionale come prezzo per restare “competitivi”.
La UE è una manna per le imprese multinazionali e un disastro autocratico per i lavoratori di tutta Europa. Ma un paese che esce e concorda le stesse condizioni da “esterno” non determinerà alcun cambiamento. Un’uscita dal capitalismo è ciò di cui il mondo ha bisogno, non da questo o quel trattato capitalista.
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Systemic Disorder
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
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