La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 3 luglio 2016

La produttività aziendale e la fine del contratto nazionale

di Umberto Franchi
Nella contesa mondiale per accaparrarsi i mercati, il Capitalismo moderno usa anche la produttività. Essa è lo strumento di una battaglia il cui fine non è certo l'elevamento delle potenzialità dell'Uomo, ma ha quale scopo la maggiore concorrenza per la conquista di nuovi mercati economici cercando di sconfiggere l'avversario, sia esso un gruppo economico o un altro Stato. In Italia (ma anche in altri Paesi Europei) nei rinnovi contrattuali i lavoratori sono considerati solo oggetti da utilizzare e trascinare nella logica della competizione. La Commissione dell'Europa dei mercati, la BCE, ed il Fondo monetario internazionale hanno chiesto ai vari governi di attuare delle "raccomandazioni specifiche" che vanno oltre le "riforme del mercato del lavoro" (Jobs Act), per approdare (nella prossima tappa) alla rimodulazione dei vari aspetti contrattuali, cancellando di fatto il contratto nazionale a favore di quello aziendale tutto basato sulla "produttività".
Così il Presidente della Confindustria Vincenzo Boccia – nella Assemblea annuale della Confindustria ed alla presenza dell'intera "classe dirigente economica, istituzionale, politica e sindacale" – e successivamente Mario Draghi (presidente della BCE), all'Assemblea della Confcommercio, lanciano l'idea dell'abolizione dei Contratti Collettivi Nazionali, sostituendoli con quelli aziendali, sapendo di trovare terreno fertile in Renzi e nel suo governo nel caso dovesse vincere a ottobre il referendum costituzionale ed elettorale. Non c'è, dunque, dubbio che dopo il Jobs Act, Renzi si appresterebbe a varare altre "riforme", tra cui l'abolizione dei CCNL, per sostituirli con quelli aziendali basati sulla "produttività", come richiesto dai poteri forti.
Ma cosa significa ciò? Di quale produttività si parla in Italia?
Purtroppo assistiamo a una feroce manipolazione della parola produttività, nascondendo il vero fine che è quello di un ulteriore declassamento del mondo del lavoro.
- Prima considerazione:
il documento di Economia e Finanza (DEF), predisposto dal governo Renzi per il 2016, prevede una serie di "riforme" come risposta alle Raccomandazioni della Commissione Europea, tra cui c'è quella della riforma della contrattazione aziendale da promuovere di concerto con le parti sociali, (Organizzazioni Sindacali e Confindustria), con due obiettivi:
1) legiferare una norma dove se il contratto aziendale venisse approvato dalla maggioranza delle sigle sindacali, altre sigle sindacali contrarie e i lavoratori non potranno più effettuare scioperi contro di esso;
2) fare prevalere le norme stabilite nel contratto aziendale anche se diverse da quello Nazionale. Ciò significa che in materia di organizzazione del lavoro, compresi gli orari, i contratti aziendali e gli stessi salari, vi possono essere condizioni meno favorevoli per i lavoratori rispetto al contratto Nazionale;
- Seconda considerazione:
i criteri di misurazione della produttività per concedere i premi aziendali, con gli sgravi fiscali disposti dal governo sui premi (10%), non riguarda gli incrementi produttivi dovuti ad eventuali investimenti tecnologici innovativi sugli impianti. I parametri verranno definiti dall'azienda in base all'attivo di bilancio aziendale, al fatturato per ogni dipendente (margine operativo lordo), all'incremento dei carichi e ritmi di lavoro, fino alla riduzione dell'assenteismo (cioè periodi di malattia). Quindi, di fatto, i lavoratori non avranno alcuna voce in capitolo perché, sostanzialmente, si tratta di un maggiore sfruttamento della forza lavoro;
- Terza considerazione:
In Italia solo il 20% delle aziende effettuano la contrattazione aziendale (37% in quelle metalmeccaniche). Al Sud la contrattazione aziendale è quasi inesistente, quindi la stragrande maggioranza dei lavoratori resterebbe esclusa senza alcun incremento salariale, con un minimo salariale ben al di sotto delle necessità, che si andrebbe a ridurre in progressione rispetto all'incremento del costo della vita.
Di fatto la competizione si baserebbe non sulla produttività, ma sull'abbassamento reale dei salari, come sta già avvenendo con i salari tagliati a causa della riforma del mercato del lavoro (Jobs Act), dove addirittura a centinaia di migliaia di lavoratori non viene nemmeno più dato un salario, ma dei "voucher". In tal modo la fascia di povertà crescerebbe a dismisura a causa della mancanza di un contratto Nazionale Solidale e aumenterebbe anche la differenza salariale tra Nord e Sud ritornando alle vecchie gabbie salariali abolite con le lotte "dell'autunno caldo" del 1969.
- Quarta considerazione:
il paradosso è che, dopo anni di riduzione reale dei salari e delle pensioni (negli ultimi 15 anni complessivamente i salari e le pensioni sono state ridotte del 35%), la ripresa economica non c'è stata, anzi il PIL (negli ultimi otto anni di crisi) si è ridotto del 15%. Con i bassi salari e le basse pensioni sono stati frenati i consumi rallentando la ripresa. Va anche rilevato che non ci sono stati investimenti sostanziali innovativi sui prodotti e sui processi. Le imprese hanno preferito la "competitività bassa" ed effettuare attività speculative per non rischiare i propri capitali nelle attività economiche. È con questa impostazione che vogliono continuare abolendo anche il Contratto Nazionale.
Una impostazione politica che ha ricadute sociali drammatiche come ci dicono i dati Istat:
- negli ultimi 10 anni le persone che vivono senza nessun reddito da lavoro, sono passate dal 9,4% al 14,2%, con oltre 2,2 milioni di famiglie (6 milioni di persone) in povertà estrema. Per le coppie giovani la percentuale senza redditi è del 29%;
- la percentuale di coloro che hanno un reddito ma sono in povertà relativa e nell'impossibilità di soddisfare i bisogni più elementari sono il 20% della popolazione, diventano il 34% se ci mettiamo anche il 14% di chi non ha nessun reddito;
- le differenza di classe sono aumentate a dismisura e oggi chi già (prima della crisi del 2007) aveva proprietà e un reddito alto, ha aumentato la sua ricchezza, mentre il 63% di coloro che provengono da famiglie a reddito basso hanno ulteriormente ridotto i propri redditi (la povertà colpisce tre volte di più il sud del nord) .
Oggi i salari dei Contratti Nazionali andrebbero aumentati ben oltre i tassi di inflazione, mentre dove il Contratto Nazionale è stato rinnovato come nel caso dei chimici i sindacati hanno firmato una clausola richiesta dall'Associazione padronale Federchimica secondo cui se nei prossimi 3 anni l'inflazione risulterà inferiore alle attese, i lavoratori dovranno restituire gli aumenti salariali (sic).
Questo fatto di insistere sulla tematica della produttività aziendale mistificando, non dimostra solo la debolezza del sindacato che non sa più alimentare il conflitto tra capitale e lavoro, ma anche che si tende a fare passare la cultura infame di coloro che sostengono che i lavoratori con il contratto nazionale sono dei privilegiati e che, quindi, devono dare qualche cosa a chi non ha un contratto o è precario, cosa che come ben sappiamo non avverrà mai perché ciò che le aziende risparmiano si traduce solo in profitto. Anche la scelta fatta dalle OO.SS. dei metalmeccanici di presentare richieste salariali minime pur di salvare il contratto nazionale, risulta perdente e ha dato la possibilità a Federmeccanica "di rilanciare, andare oltre", proponendo alcuni incrementi solo a quei lavoratori che hanno salari bassissimi (circa il 5%) e rimettendo "sul piatto" cifre modeste solo per la contrattazione aziendale basata sulla "produttività".
Credo che oggi la scelta per i lavoratori non può essere che quella di respingere le "sirene" della battaglia sulla produttività aziendale puntando a un vero contratto Nazionale, solidale, in grado di incrementare fortemente i salari per tutti i lavoratori, (anche nelle piccole aziende) migliorare i diritti, le normative, le professionalità, sapendo che ciò sarebbe utile non solo alle magre entrate dei salariati, ma agli stessi imprenditori che da forti incrementi salariali sarebbero spinti ad innovare nell'alta gamma.
Se la democrazia è, come credo, un sistema di principi, valori, regole, legati all'evoluzione e partecipazione delle classi subalterne nelle istituzioni politiche, nonché l’affermazione di uno stato sociale e di diritti fondato sul compromesso tra capitale e lavoro attraverso la mediazione dello stato, occorre rilevare che oggi tutti i pilastri della democrazia sono crollati. Lo stato italiano, come altri, ha perso la sua sovranità vendendola ad organismi transnazionali privi di legittimazione democratica. Il mercato/capitale è sfuggito a ogni controllo politico, ha imposto lo smantellamento dello stato sociale affermando la sola legge del capitale.
Purtroppo quello che manca in Italia, non è soltanto un sindacato all'altezza della situazione in grado di contrattaccare con una vasta lotta su un progetto alternativo a quello padronale. Manca anche una sinistra vera che, a partire da quella dei movimenti, sappia cosa proporre in alternativa, che abbia un progetto economico, ambientale, sociale, culturale, radicalmente diverso, che sappia farsi carico della centralità del lavoro anche attraverso una ricostruzione sociale e culturale in grado di coinvolgere le classi sociale più deboli a partire da quella lavoratrice.
Certo, il contesto attuale ci impone come esigenza prioritaria quella di sviluppare la battaglia in difesa della Costituzione e contro l’Italicum, ma questa battaglia non può essere collegata soltanto alle garanzie democratiche che le "riforme renziane" manometterebbero. La battaglia contro le "deforme" deve essere la premessa per ricreare le condizioni atte a promuovere i lavoratori a classe di governo!

Fonte: La Città futura 

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