di Carmine Tomeo
Tempo fa ho incontrato un lavoratore che conosco da anni, ma che non vedevo da molto tempo. Mi aveva raccontato quanto il lavoro l’avesse consumato. Adesso - mi aveva detto - per i problemi di salute che aveva, ai quali si sono aggiunti gli acciacchi dovuti all’età (a dire il vero nemmeno troppo avanzata) e ai decenni di duro lavoro, non ce la faceva più. Solo che la pensione era ancora lontana qualche anno, perché intanto il diritto alla pensione era già diventato “volatile”. E così quel lavoratore stava vivendo in un limbo, fatto di frustrazioni per la condizione fisica, per le difficoltà economiche, per l’impossibilità di raggiungere un meritato riposo dal lavoro e per essere senza le piene capacità di lavoro.
A me parve immediatamente che quel lavoratore rappresentasse l’incarnazione del comando del capitale sui lavoratori. In anni di lavoro le sue capacità lavorative erano venute meno. Ciò che per quel lavoratore (come per ogni altro lavoratore) era l’unica merce a sua disposizione - la sua capacità di lavoro, la sua forza lavoro - non era più nelle sue disponibilità. Dopo anni di lavoro, ma anni prima della meritata pensione, i mezzi di sussistenza (che comprendono anche cose come la cura della salute, il diritto alla casa, ecc.) necessari a far sì che che quel lavoratore, dopo aver “lavorato oggi” fosse “in grado di ripetere domani lo stesso processo, nelle stesse condizioni di forza e salute”, non erano più sufficienti: non erano più sufficienti a reintegrare quel “dispendio di una certa quantità di muscoli, nervi, cervello” (per dirla con Marx). Ma l’importante, per il capitale, è che la forza lavoro di quel lavoratore e di altri “sottratte al mercato… dal logoramento” possano “esser continuamente reintegrate” con “forze-lavoro nuove”. In questi termini, non è altro che “muscoli, nervi, cervello” da sostituire con altri “muscoli, nervi, cervello”, anche l’operaio 66enne costretto a lavorare in nero in un cantiere edile a Palermo per garantirsi un reddito fino alla pensione, ma morto sul lavoro.
Tra le questioni che oggi si pongono, c’è l’ampiezza dell’esercito industriale di riserva da cui il capitale può attingere per eventualmente sostituire la forza-lavoro; per rimpiazzare quel lavoratore che dopo anni di fatiche è tanto logorato da non essere più ritenuto idoneo al lavoro. La disoccupazione, nell’ultima rilevazione Istat che fa riferimento a giugno, mostra ancira un tasso in crescita (11,6%). E l’occupazione, quando cresce, è su valori così risicati che possono far gioire solo il presidente del Consiglio, euforico come un imbonitore che cerca di vendere la sua merce: il Jobs act, cioè quello strumento normativo che il governo Renzi ha offerto al padronato per aumentare il suo comando sul lavoro con la possibilità di ricattare i lavoratori.
I contratti a tempo indeterminato tanto reclamizzati dal segretario del Pd, con il Jobs act hanno praticamente cessato di esistere; intanto cresce il numero di contratti precari (specie dopo la riduzione degli sgravi contributivi generosamente offerti dal governo alle aziende) e soprattutto il ricorso ai voucher, che ha raggiunto un’intensità ed una estensione mai visti prima, coinvolgendo praticamente ogni settore economico. Il Jobs act, da quando è entrato in vigore, non ha prodotto alcun risultato apprezzabile in termini di occupazione, mentre ha distribuito miliardi di euro alle aziende. Intanto, però, la precarietà, già ampiamente diffusa, incentivata e fatta passare per buona e stimolante flessibilità, con il Jobs act è stata consacrata a elemento fondante delle politiche di abbassamento dei salari, di riduzione dei diritti dei lavoratori e di frammentazione di classe.
Proprio nel senso di una frammentazione di classe si è mosso e si muoverà ancora nei prossimi mesi, il tentativo congiunto di governo e padronato di attacco al Contratto collettivo nazionale, che vede il sostanziale consenso dei sindacati confederali notoriamente “cooperanti” con le aziende (vedi Cisl e Uil) e con una blanda resistenza (ed è già un eufemismo) della Cgil (o meglio, di alcuni settori di essa). Lo smantellamento di fatto del Ccnl si muove attraverso: l’attacco al salario con la volontà di introdurre una scala mobile alla rovescia, che imporrebbe restituzioni di quote di salario al padronato, richiesta senza mezzi termini del precedente presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi che ha trovato presto seguito e fondamentalmente già introdotta in qualche caso (si veda l’accordo dei chimici); l’aumento del tempo di lavoro che è già realtà consolidata, con il regime dei 18 turni settimanali (al quale non si oppone più nemmeno la Fiom di Landini), con la saturazione dei tempi ciclo, con l’aumento degli straordinari; l’attacco al diritto di sciopero, che è sempre più evidente, con l’introduzione delle clausole di raffreddamento già contenute nel Testo unico sulla rappresentanza. E intanto si pongono le basi per lo smantellamento del welfare ed in particolare della sanità pubblica, con l’introduzione di forme di welfare aziendale, per cui la salute rischia di trasformarsi da diritto inalienabile a merce di scambio contrattuale.
In questo quadro, tra l’altro, i lavoratori sono in balia dell’andamento del mercato rispetto al quale non hanno alcuna protezione. Quel lavoratore di cui si parlava all’inizio, se e quando ci sarà necessità di sostituirlo nel lavoro che negli anni lo ha logorato, sarà fatto con un altro lavoratore, più precario, più sfruttato, peggio pagato, con meno diritti, mentre è in corso l’erosione di qualunque protezione sociale. Eppure di fronte ad un attacco così ampio contro i lavoratori, che non esclude nessuno, non si è vista alcuna seria opposizione, né politica, né sindacale. Certo, alcune ore di sciopero peraltro articolate su basi territoriali, ma niente che si ponga nei termini di recuperare ai lavoratori rapporti di forza più favorevoli.
Lo scorso anno, la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso non ebbe nemmeno il coraggio di pronunciare “autunno caldo” e parlò di autunno “piovoso”. Come sarà il prossimo autunno, è difficile prevederlo; ma cosa sta costando ai lavoratori la rinuncia ad una seria opposizione politica, sindacale e sociale è davanti agli occhi di tutti e sulle spalle di quanti devono lavorare per campare. Pare, quindi, evidente che non è più rinviabile stringersi intorno ad un progetto politico di classe, da far vivere e sviluppare nelle lotte (per il lavoro, per il dritto alla casa, per la difesa ambientale, ecc.) e che getti le basi dell’antagonismo rispetto allo smantellamento dei diritti sociali.
Fonte: La Città futura
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