La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 3 luglio 2016

Quanto è lungo un secolo? Invito alla lettura di Giovanni Arrighi

di Vincenzo Marineo 
Il lungo XX secolo di Giovanni Arrighi è, per il lettore non specialista, una occasione per allontanarsi dai nostri tempi, dalla loro supposta insistente novità, dalla crisi che sembra condizione permanente, per tornarvi avendo saputo che quello che sembra nuovo (e incomprensibile) non è poi davvero tale. Certo, bisogna avere una buona dose di curiosità per affrontare le sue 500 pagine; ma la constatazione della complessità delle cose che sono fuori dal libro, nel mondo, e la paura e l’insicurezza che quindi percepiamo, dovrebbero essere motivi sufficienti per provare a seguire chi ambiziosamente tenta discorsi all’altezza di quella complessità.
Fa crescere la curiosità la lettura della biografia di Arrighi, raccontata in una lunga intervista del 2009 (poco prima della sua scomparsa) con un interlocutore d’eccezione, David Harvey. Arrighi, a differenza di tanti altri scienziati sociali, ha lavorato: prima nell’azienda paterna, una piccola industria che produceva macchine (per il settore tessile, in seguito per riscaldamento e condizionamento); nello stesso settore operava l’azienda del nonno, presso la quale Arrighi ha raccolto i dati per la tesi in economia; infine ha lavorato presso una multinazionale, la Unilever. Queste esperienze, afferma, gli sono state utili per valutare criticamente la validità delle teorie economiche (“l’elegante equilibrio generale dei modelli neo-classici”, come osserva non senza ironia nell’intervista), e per comprendere la multiformità, la “plasticità”, del capitalismo. E anche, c’è da supporre, per districarsi tra i vari tipi di lavoro – utile, astratto, vivo, necessario, immediatamente sociale, immediatamente socializzato ecc. – che affollano le pagine del marxismo.
La tesi della “plasticità” del capitalismo è il punto di partenza della ricerca che Arrighi svolge nel Lungo XX secolo. È una tesi ripresa dai lavori dello storico Fernand Braudel, che considera la plasticità e l’eclettismo come caratteristiche fondamentali del capitalismo storico osservato sul lungo periodo, contrapposte alle forme concrete che il capitalismo assume in determinati luoghi o epoche. Una tesi che presuppone questo sguardo lungo alla Braudel, il quale non identifica il capitalismo con l’industria, né con l’economia di mercato, e ne studia l’evoluzione a partire dal XV secolo, seguendo la storia dell’economia-mondo europea, l’allargarsi del suo spazio geografico, i mutamenti del suo centro, delle aree intermedie, delle periferie.
Braudel indica come “capitalismo” il livello superiore di una struttura a tre piani, il cui piano inferiore è quello della vita materiale (biologico, di sussistenza), e il piano intermedio è quello economico (lo scambio, i mercati). Il capitalismo è, in questo schema, il luogo in cui si realizzano “grandi profitti”, che “domina” il mercato grazie allo specifico rapporto di forza che sfrutta chi agisce a questo livello: “[…] si tratta di scambi ineguali in cui la concorrenza – regola essenziale della cosiddetta economia di mercato – ha poco spazio ed in cui il mercante gode di due vantaggi: in primo luogo quello di avere interrotto il rapporto diretto e lineare tra il produttore e il consumatore – solo lui infatti conosce le condizioni di mercato ai due poli della catena e dunque il profitto prevedibile –; in secondo luogo, dispone del denaro in contanti che è il suo principale alleato.” (Braudel, La dinamica del capitalismo, p. 57-58).
Questo è il punto di partenza per l’indagine svolta da Arrighi nel Lungo XX secolo “delle tendenze attuali alla luce di modelli di ricorrenza e di evoluzione che abbracciano l’intera esistenza del capitalismo storico in quanto sistema mondiale”.
La presenza di Marx è costante, e tutta l’esposizione è riferibile alle forme e alle attualizzazioni della formula generale del capitale denaro-merce-più denaro, in relazione però non ai singoli investimenti capitalistici ma al capitalismo come sistema mondiale, nel corso delle varie fasi della sua storia. Le ricorrenze che Arrighi individua sono centrate attorno all’alternarsi di epoche di espansione materiale e di epoche di espansione finanziaria: “Nelle fasi di espansione materiale il capitale monetario ‘mette in movimento’ una crescente massa di merci […]; nelle fasi di espansione finanziaria una crescente massa di capitale monetario ‘si libera’ dalla sua forma di merce, e l’accumulazione procede attraverso transazioni finanziarie (come nella formula marxiana abbreviata D-D’). Insieme, le due epoche o fasi formano un intero ciclo sistemico di accumulazione (D-M-D’)”. Le espansioni finanziarie iniziano quando le transazioni finanziarie sono in grado di creare un flusso di denaro verso lo strato capitalistico in maniera maggiore rispetto all’investimento del denaro nell’espansione del commercio e della produzione; ciò che noi oggi chiamiamo “finanziarizzazione” non solo non è una novità, ma è una fase del fisiologico funzionamento del capitalismo, funzionamento che è, come Arrighi mostra, inscindibilmente legato a quello del sistema delle organizzazioni territorialistiche nella forma che queste assumono in Europa, gli stati.
Arrighi identifica “quattro cicli sistemici di accumulazione, ciascuno caratterizzato da una fondamentale unità dell’agente primario e della struttura dei processi di accumulazione di capitale su scala mondiale: un ciclo genovese, dal XV secolo agli inizi del XVII; un ciclo olandese, dalla fine del XVI secolo fino a buona parte del XVIII; un ciclo britannico, dalla seconda metà del XVIII secolo agli inizi del XX; un ciclo statunitense, che ha avuto inizio alla fine del XIX secolo ed è proseguito nella attuale fase di espansione finanziaria.”
In ciascun ciclo Arrighi individua una “crisi spia”, che segnala l’inizio dell’espansione finanziaria, e una “crisi terminale” che segna la fine del regime dominante di accumulazione e prepara il passaggio a un nuovo regime. Il momento dello spostamento dal commercio e dalla produzione verso l’intermediazione e la speculazione finanziaria è un “momento meraviglioso”, di nuova ricchezza per gli agenti capitalistici e di nuovo potere per l’organizzazione statale; ma “non è mai stato l’espressione di una soluzione durevole alla crisi sistemica sottostante. Al contrario, è sempre stato il preludio ad un aggravamento della crisi e alla definitiva sostituzione del regime di accumulazione dominante con uno nuovo”.
Nella postfazione all’edizione inglese del 2009 del Lungo XX secolo Arrighi fornisce e commenta uno schema che riassume la successione dei quattro cicli, “concentrandosi sui ‘contenitori di potere’ che hanno ogni volta ospitato i ‘quartieri generali’ dei principali organismi capitalistici dei regimi consecutivi: la Repubblica di Genova, le Provincie Unite, il Regno Unito e gli Stati Uniti.” 


​La Repubblica di Genova era una debole città-stato, costretta ad esternalizzare tutti i tipi di costi dello sviluppo: priva di capacità militari (protezione), priva di capacità produttive (produzione), priva della possibilità di trovare al proprio interno un mercato autosufficiente (transazione) e priva infine di risorse umane e naturali (riproduzione); ciononostante, i mercanti genovesi, con le loro reti cosmopolite, divennero i protagonisti del primo ciclo di accumulazione, sostenendo nella fase di espansione finanziaria l’imperialismo iberico e l’espansione spaziale del sistema capitalistico (regime di accumulazione di tipo estensivo).
Le Provincie Unite possedevano capacità militari sufficienti a fare a meno della protezione della Spagna o di altri stati, e a consolidare la propria rete di avamposti commerciali (regime di accumulazione di tipo intensivo).
Il Regno Unito era uno stato nazionale, militarmente in grado di espandersi (regime estensivo), e dotato inoltre, rispetto a Genova e alle Provincie Unite, di autonome capacità produttive agro-industriali.
Gli Stati Uniti, infine, sono un’organismo di dimensioni tali da avere non solo autonome capacità militari e produttive, ma da possedere un mercato interno in grado di sostenere l’espansione del proprio capitale. La “conquista” del mondo era già stata operata dagli inglesi; “fu consolidata in un sistema di mercati nazionali e di grandi imprese transnazionali che aveva il proprio centro negli Stati Uniti.”
Nessuno di questi “contenitori di potere” ha attinto al proprio interno tutte le risorse umane e naturali necessarie a sostenere i costi di riproduzione dello sviluppo capitalistico.
Nello schema dei cicli di Arrighi il passaggio all’internalizzazione dei costi di produzione, avvenuto con il ciclo britannico e corrispondente alla rivoluzione industriale, potrebbe essere letto come il collegamento tra il piano del capitalismo di Braudel e il piano del capitalismo di Marx; esso è il momento in cui “[i]l capitalismo storico in quanto sistema mondiale di accumulazione divenne un ‘modo di produzione’”. Marx, ricorda Arrighi, vuole condurci nel segreto laboratorio della produzione, dove “ci si dovrà svelare l’arcano della fattura del plusvalore”; Braudel (e Arrighi con lui) ci vuole svelare “l’arcano della produzione di quei profitti enormi e costanti che hanno permesso al capitalismo di prosperare e di espandersi ‘incessantemente’ nel corso degli ultimi cinque o seicento anni, prima e dopo le sue avventure nei segreti laboratori della produzione.”; continua Arrighi: “Si tratta non di progetti alternativi bensì di progetti complementari”.
La complementarità di questi due punti di vista è forse stata sin ora poco sfruttata. Il duplice livello di analisi del capitalismo, come modo di accumulazione e come modo di produzione, potrebbe fornire oggi uno strumento per distinguere la sovrapposizione di due crisi, discriminandole: la crisi del “contenitore di potere” (gli Stati Uniti) che ospita gli organismi capitalistici dominanti, e la crisi di valorizzazione del capitale nelle sue molteplici espressioni legate a contesti più specifici.
Ma perché è proprio il capitalismo europeo che ha creato una struttura economica di dominio estesa a tutto il mondo? Mercanti che fanno grandi profitti, capitalisti nel senso di Braudel, ce ne sono stati pure in Cina, in India, nell’Islam. Il Lungo XX secolo è la risposta a questa domanda, con la sua analisi di quella “singolare fusione tra stato e capitale, che in nessun luogo fu realizzata in modo tanto favorevole al capitalismo come in Europa”. Come afferma Braudel, citato da Arrighi: “Il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo stato, quando è lo stato.” A sostenere l’espansione dell’economia-mondo capitalistica sono state sia la concorrenza interstatale che “la concentrazione del potere nelle mani di particolari blocchi di agenti governativi e imprenditoriali”. Un esempio di questo sostegno è stato il sistema del debito pubblico. In ogni ciclo di accumulazione, quando le espansioni materiali hanno trovato il loro limite, e i rendimenti iniziano a decrescere, la conseguente sovrabbondanza di capitale monetario è stata ogni volta assorbita da “organizzazioni per le quali il potere e il prestigio, invece che il profitto, costituivano i principi guida dell’azione. […] Esse lottarono contro i rendimenti decrescenti prendendo in prestito tutto il capitale possibile, e investendolo per conquistare con la forza mercati, territori, popolazioni”.
Il confronto tra organizzazioni capitalistiche e organizzazioni territorialistiche mi sembra un altro elemento di metodo di cui occorrerebbe tenere costantemente conto. Esse hanno due logiche distinte, che sono state complementari e si sono sostenute a vicenda; tuttavia lo stato ha una sua logica interna che rimane distinta da quella del capitalismo. È interessante notare la diffidenza nei confronti della stato manifestata da Arrighi alla fine della sua intervista con David Harvey, in cui esprime dei dubbi sull’opportunità del possesso e del controllo statale dei mezzi di produzione; un pensiero anticapitalista non può fare a meno di interrogarsi sul ruolo dello stato, che forse con troppa facilità siamo oggi portati a vedere come possibile nemico, o almeno controllore, del capitalismo, e quindi, in prospettiva, come qualcosa la cui logica interna può anche essere buona. Senza capitalismo, il governo non sarà più il comitato d’affari della borghesia, ma occorre chiedersi adesso cosa sarà.
Arrighi non si sottrae infine al tentativo di ricavare delle previsioni dalle sue analisi. Nel Lungo XX secolo sembra vedere nell’Asia orientale, e più specificatamente nel Giappone, un candidato al ruolo di stato-guida di un prossimo ciclo di accumulazione; nella postfazione all’edizione del 2009 (e dopo avere pubblicato, nel 2007, il volume intitolato Adam Smith a Pechino), prende atto dell’ascesa della Cina, che “ha iniziato a sostituire gli Stati Uniti come la principale forza alla guida dell’espansione commerciale ed economica in Asia Orientale e altrove.”
La conclusione, sempre nella Postfazione, è comunque aperta, in tre direzioni: “(1) la formazione di un impero mondiale; (2) la formazione di un’economia mondiale non capitalista; oppure (3) una situazione di caos sistemico senza fine.” Non sappiamo come Arrighi avrebbe aggiornato, sette anni dopo, questa conclusione.

NOTA
Le citazioni de Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo sono dall’edizione EST-Il Saggiatore, Milano 1999; traduzione di Mauro Di Meglio. L’opera è stata ripubblicata, sempre da Il Saggiatore, nel 2014.
L’edizione originale di The Long Twentieth Century. Money, Power, and the Origins of Our Times è del 1994 (Verso, London).
L’intervista di David Harvey a Giovanni Arrighi, comparsa su “New Left Review” 56, marzo-aprile 2009, è disponibile in rete, nella traduzione di Laura Cantelmo, all’indirizzo: I tortuosi sentieri del capitale - New Left Review
La Postfazione di Giovanni Arrighi all’edizione inglese del 2009 di The Long Twentieth Century è in rete, nella traduzione di Roberta Cimino, all’indirizzo: Giovanni Arrighi Postfazione inedita a Il Lungo XX Secolo - Storicamente
La citazione di Fernand Braudel è da La dinamica del capitalismo, il Mulino, Bologna 2013

Fonte: Palermograd 

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