La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 3 agosto 2016

Cultori della morte

di Saverio Ferrari
Fra i luoghi ultimamente privilegiati per l’azione politica dei gruppi neofascisti e neonazisti sono sempre più in voga i cimiteri. A Milano in particolare, dove nacque e morì il fascismo. Il cimitero Monumentale, in primo luogo, dove giacciono le spoglie di Filippo Tommaso Marinetti, il padre del Futurismo. E dove, soprattutto, nel 1925 Benito Mussolini inaugurò il cosiddetto monumento ai «martiri della rivoluzione fascista», un sacrario dove furono progressivamente raccolte le salme di tredici squadristi, non solo milanesi, caduti in scontri di strada. A scolpirlo, l’artista di regime Armando Violi, autore, tra l’altro, dei cavalli alati in marmo che spiccano dalla facciata anteriore della stazione Centrale.
Il monumento agli squadristi
L’opera, tra il liberty e l’art déco, di qualche metro di altezza, era originariamente composta da una statua raffigurante tre giovinetti seminudi in posa eroica, uno dei quali con in braccio un fascio littorio sormontato da un’aquila con le ali aperte. Nella parte posteriore, attraverso una ripida scaletta era possibile accedere a una cripta. Finita la guerra il fascio e l’aquila furono asportati, così la targa commemorativa. Posto oggi nel «Campo B rialzato di levante», il monumento si confonde fra gli altri, senza particolari segni di riconoscimento. Nella «Storia della rivoluzione fascista 1919-1922» di Giorgio Alberto Chiurco, un’opera di regime edita nel 1929, si menzionano tra i nomi ospitati nel sacrario Ugo Pepe, il figlio ventunenne dell’ammiraglio Gaetano Pepe, autore di diverse spedizioni punitive tra il Veneto e Milano (tentò anche, nel luglio del 1921, di far saltare con tubi di gelatina la sede centrale del partito repubblicano a Treviso). Ferito mortalmente nel capoluogo lombardo la sera del 23 aprile 1922 da due revolverate nei pressi di Porta Romana, spirò all’ospedale. I funerali si tennero al cimitero Monumentale, il 26 successivo, alla presenza di Mussolini e centinaia di squadristi lombardi, liguri e veneti.
Prima di Ugo Pepe erano comunque morti per “incidenti sul lavoro” Aldo Sette, di diciassette anni, rimasto ucciso il 20 marzo 1921 nel corso di una spedizione al quartiere Greco, all’epoca roccaforte socialista, e Franco Baldini di 48 anni, colpito a morte con arma da fuoco a Roma, in trasferta, nel novembre 1921, durante gli scontri, proseguiti per quattro giorni, in occasione del congresso costitutivo del Partito nazionale fascista. L’anno successivo, nella notte fra il 15 e il 16 luglio, era invece rimasto ucciso a Milano lo squadrista ventenne Eliseo Bernini, mentre, poche settimane dopo, il 4 agosto 1922, erano cadute tre camicie nere: il venticinquenne Cesare Melloni, il ventiduenne Emilio Tonoli e il trentenne Edoardo Crespi. I primi due durante l’assalto con bombe e fucili alla sede dell’Avanti!, il terzo in piazzale Procaccini.
Attraverso altre fonti sappiamo anche della fine del sansepolcrista Paolo Grassigli, ferito a pugnalate in uno scontro con i socialisti, spirato il 29 ottobre del 1922. A lui venne anche intitolata una piazza a Dergano poi cancellata nel dopoguerra. Vittorio Agnus, iscritto al Fascio di Milano, morì invece il 26 dicembre 1924 a Musocco, colpito da arma da fuoco, durante una «ispezione». Loris Socrate, dal canto suo, cadde il 22 maggio del 1924 in Libia, ucciso da un ascaro “impazzito”. Luca Mauri venne meno il 30 marzo del 1930, come «grande invalido della Rivoluzione».
Della morte violenta di Orazio Porcù (accoltellato in una cascina fuori Milano), avvenuta nel luglio 1930, dette invece notizia Il mattino illustrato. Sulla rivista comparve anche un servizio sulle sue esequie. Enzo Meriggi, del fascio di Mantova, protagonista di numerose «spedizioni punitive», cessò di vivere, infine, il 2 giugno del 1934 per le conseguenze sulla sua salute derivanti dal “servizio”.
Da qualche anno, in occasione del 23 marzo, data di fondazione nel 1919 dei Fasci di combattimento, gruppi di neofascisti si ritrovano davanti a questo monumento, seppur azzoppato, per omaggiare coloro che bastonarono e assassinarono con ferocia operai, contadini, assaltarono le Camere del lavoro e le sedi dei partiti democratici, cacciarono dai Comuni i sindaci regolarmente eletti, “marciarono” su Roma.
Il campo 10
Il secondo riferimento è invece rappresentato dal Campo 10 al Cimitero Maggiore, dove nel corso degli anni successivi alla guerra sono stati riuniti i resti di alcune centinaia di caduti della Repubblica sociale italiana, per la precisione 921. Tra gli altri, nove volontari italiani nelle 24ma e 29ma Divisione Granadier delle SS, oltre 150 delle Brigate nere, più di 100 della Legione Ettore Muti e oltre 40 della Decima Mas.
Qui sono state tumulate alcune delle figure che hanno fatto la storia del ventennio fascista e della Rsi: Alessandro Pavolini l’ultimo segretario nazionale del Partito fascista repubblicano, oltre che comandante generale delle Brigate Nere, i gerarchi Francesco Maria Barracu e Carlo Borsani, Francesco Colombo il capo della Ettore Muti, che operò come “polizia fascista” nella caserma di via Rovello (poi sede del Piccolo Teatro), dove furono allestite camere di tortura e una «cella della morte», e che offrì gli uomini per il plotone di esecuzione che fucilò il 10 agosto del 1944 in Piazzale Loreto quindici patrioti. Oltre a loro, Armando Tela uno dei luogotenenti della «banda Koch», partecipe diretto di torture e sevizie nella sede di Villa Triste di via Paolo Uccello (Villa Fossati), dove si fece uso di corde per appendere i prigionieri, di tenaglie per strappare unghie, daghe di ferro da arroventare e mettere sotto i piedi dei partigiani. Tra Roma e Milano la «banda Koch» arrestò 633 antifascisti, 40 dei quali furono assassinati. Il capo, Pietro Koch fornì tra l’altro una lista di 50 nomi per completare l’elenco delle persone da trucidare alle Fosse Ardeatine. Fu fucilato come «criminale di guerra» il 10 giugno 1945 a Forte Bravetta a Roma. Nello stesso campo è stato anche sepolto molti anni dopo, nel 1974, l’ultimo federale di Milano, Vincenzo Costa, non dunque un caduto, ma qui accolto per la sua militanza neofascista nel dopoguerra.
Al Campo 10, da almeno tre anni, i neofascisti, in prima fila quelli di Lealtà azione, sfilano il 25 aprile, il giorno della Liberazione, in trecento, inquadrati come un reparto militare, sventolando l’aquila di Salò, tra la colpevole inerzia delle istituzioni.
Non sono più solo atti simbolici. Il culto della morte, quasi un’ossessione, è sempre appartenuto all’identità fascista. Ora sta divenendo per le nuove leve terreno d’azione politica.

Fonte: Il manifesto 

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