La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 3 agosto 2016

La palpitazione polemica di un’idea

di Alessandro Santagata 
La celebrazione del Giubileo ha riempito le librerie di pubblicazioni di ogni tipo. Con papa Francesco la misericordia è tornata oggetto di un dibattito che ha assunto una certa dimensione mediatica, rimanendo comunque confinato in determinati ambienti devozionali e intellettuali. Eppure, come ha scritto Pasquale Terracciano «c’è stato un tempo in cui misericordia fu un’idea palpitante, polemica, immediatamente politica; un’epoca di grande turbamento spirituale e di profonda divisione in cui risuonò come parola cui appigliarsi».
Al giovane studioso della Scuola Normale Superiore di Pisa si deve ora la prima edizione in italiano del Sermone sull’immensa misericordia di Dio (De immensa Dei misericordia concio) di Erasmo da Rotterdam (Edizioni della Normale, pp. 124, euro 10).
Questa piccola predica, «elegantissima e coinvolgente», fu composta nel 1524. In quello stesso anno lo stampatore Johann Froben pubblicava il più celebre De libero arbitrio diatribe sive collatio. È chiaro quindi che siamo di fronte a due testi profondamente connessi – come spiega il curatore – «due parti della medesima confutazione erasmiana di Lutero». Lo chiarisce, del resto, anche la scelta del dedicatario, quel Cristoph von Utenheim con cui Erasmo condivideva l’idea che fosse necessario affrontare le questioni messe in campo dal monaco tedesco. L’encomio della misericordia si offre come una chiarificazione sul ruolo della grazia divina nella giustificazione e non stupisce che nel sermone il confronto con la Riforma si articoli attorno a una serie di temi chiave nel dibattito teologico dell’epoca.
Che cosa è dunque la misericordia? In primo luogo, si tratta della risposta a due pericoli per la moralità del cristiano: la superbia umanistico-pelagiana e il pessimismo luterano. Con le consuete finezza retorica e sapienza scritturistica Erasmo – scrive Terracciano – «rielabora, per un verso, motivi paolini e classici per descrivere un’antropologia profondamente pessimistica; per un altro verso pone l’accento sulla dignità del’uomo e sul suo libero arbitrio».
Di Lutero l’autore condivide le critiche alla Chiesa, per esempio nei confronti delle indulgenze – argomento che ritorna anche nella Concio e di cui l’Inquisizione romana raccomandò la soppressione – e dei formalismi esteriori del clero (viene in mente il testo satirico Iulius exclusus e coelis, in cui si immagina papa Giulio II respinto da Pietro in Paradiso). A differenza di questo o di altri testi, come il più celebre Elogio della follia, l’argomentazione del Sermone segue però un ordine espositivo rigoroso, anche se non privo di eterodossie. Ne fornisce un esempio l’allusione a Origine d’Alessandria e alla sua tesi sull’inesistenza dell’Inferno, particolarmente in voga in certi ambienti intellettuali del Cinquecento. Il cuore del discorso si trova però nella difesa della libertà dell’uomo che Erasmo valorizza capovolgendo nelle conclusioni l’istanza germinale alla base della teologia luterana.
In Dio misericors et miserator tutti si possono salvare perché se la grazia pertiene alla vocazione e all’elezione, la misericordia è invece distribuita a tutti, anche a chi è fuori dalla Chiesa. Ecco allora che in Erasmo la categoria di misericordia (sostanzialmente sganciata dalla funzione del clero) assume un potenziale decisamente superiore al principio di riconciliazione, apre le porte a una sorta di ecumenismo radicale rivolto ai turchi, agli ebrei e ai popoli del Nuovo Mondo, «risuona come una parola d’ordine con cui riassumere e conciliare sola fide e libertà dell’uomo». Terracciano attesta che il Sermone ebbe una sorprendente ricezione in Italia.
Nell’arco di pochi anni, venne infatti tradotto ben tre volte (a Mantova, Venezia e Firenze), andando a costituire nelle sue volgarizzazioni un capitolo cruciale della circolazione clandestina di Erasmo al di qua delle Alpi proprio alla vigilia della messa all’Indice delle opere dell’umanista nel 1559; una teologia alternativa diffusa spesso tra gli strati più umili e in cui la misericordia e la speranza di una liberazione alla portata di tutti andavano finalmente di pari passo.

Fonte: Il manifesto 

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