di Luigi Spinola
Il contro-golpe attuato da Erdogan segna il definitivo affossamento del progetto già deformato del riformismo islamico. Una svolta che interessa tutta la regione. Dopo il golpe egiziano e il ritorno in sella di Assad in Siria, la deriva turca congela ogni ipotesi di cambiamento politico. Perché anche se quella stagione oggi sembra lontana, fu il Fratello musulmano Erdogan ad annunciare la primavera che prometteva una soluzione alla lunga crisi – sociale e politica, oltre che geopolitica – dell’ordine mediorientale. L’ingresso di Erdogan sulla scena risale a una quindicina di anni fa, ma questa storia ha un antefatto vecchio un secolo.
Ha compiuto da poco cento anni l’accordo Sykes-Picot che nel 1916 ritagliava con l’accetta l’impero ottomano in zone d’influenza francesi e britanniche, disegnando così la base territoriale sulla quale sorgeranno Stati nazionali tutti da inventare. Pochi anni dopo, nel 1924, con la cancellazione del Califfato decretata da Ataturk, viene meno anche l’istituzione che dal giorno della morte del Profeta rappresentava l’unità della Umma. Un vuoto simbolico-politico che il neonato movimento dei Fratelli Musulmani prova a colmare nel 1928, anche se l’idea che l’islam possa essere nel Novecento “un sistema completo e totale” deve aspettare decenni, e i fallimenti del nazionalismo, prima di presentarsi nelle sue versioni più o meno radicali, come una proposta politica credibile.
È una storia che a lungo ha diviso testa e corpo dell’impero. Mentre gli arabi costruiscono le loro nazioni, la Turchia kemalista volta decisamente le spalle a oriente, attinge alla tradizione politica europea e s’inventa laicista come premessa per diventare moderna, imperniando la sua identità sul mito etnico-nazionalista della “turchicità”. E diventa già nel 1952 una pedina geopolitica cruciale dell’Alleanza Atlantica. È un modello che via via si logora, a causa anche del susseguirsi di governi sempre più corrotti, instabili, impopolari. Una crisi diversa ma parallela all’erosione della legittimità dei governanti arabi, fiaccati dalle ripetute sconfitte con Israele e dal fallimento dei programmi di sviluppo economico e sociale.
L’ordine è puntellato in Turchia dai ripetuti interventi dei custodi della democrazia in divisa (1960, 1971, 1980), fino al primo «golpe post-moderno», come lo definì l’ammiraglio Salim Dervisoglu: nel 1997 i militari mettono fine al primo esperimento di governo islamista, quello di Necmettin Erbakan e del partito del Welfare, senza sciogliere il Parlamento o toccare la Costituzione. Il partito viene liquidato dalla suprema corte, mentre i tribunali mettono al bando dalla vita politica per cinque anni Erbakan, ma anche il brillante giovane sindaco di Istanbul (1994-1998) Recep Tayyip Erdogan. Il futuro leader finisce anche in galera per aver declamato alcuni versi del poeta Ziya Gokal, che riascoltati oggi offrono una buona colonna sonora al golpe in corso: «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…».
La creazione voluta da Erdogan e alcuni compagni nel 2001 di un partito dichiaratamente post-islamista, il partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), permette di superare i laici guardiani del sistema politico. Il movimento si spacca, i conservatori lo trattano da rinnegato. Ma la scommessa è vincente. E nei primi anni al potere, l’Akp si accredita come forza di governo democratica. Avvia riforme liberali e limita gli interventi ispirati dalla religione. ammorbidisce la dura legge anti-terrore in vigore dal 1991 e lancia il processo di “Iniziativa democratica”, che punta a cambiare il rapporto tra Stato e cittadini. Riforma in profondità il diritto del lavoro. Moltiplica il budget per l’istruzione. Avvia una nuova fase di modernizzazione. E l’economia decolla.
L’Akp di Erdogan trova così una vasta popolarità in Turchia e credibilità oltre i confini di casa (il Partito popolare europeo nel 2005 lo accoglie come osservatore) dove viene salutato come un modello di compatibilità tra islam, modernità e democrazia. Esportabile forse anche negli Stati arabi indeboliti dal rapporto disfunzionale tra cittadini e potere. Tanto più che il neo-ottomanesimo delineato dallo stratega Ahmet Davutoglu , senza rinnegare il progetto di integrazione nella Ue, riproietta Ankara nello scacchiere mediorientale come attore geopolitico di primo piano e punto di riferimento per i fratelli arabi.
L’avvio della primavera araba però coincide con le prime avvisaglie dell’autunno della democrazia in Turchia. La situazione precipita nel 2013. Il riformista Erdogan scompare nello scontro con il movimento di piazza Taksim. E dopo l’avvio alla fine dell’anno di una maxi-inchiesta per corruzione che investe il partito, pilotata secondo Erdogan dal potente ex alleato Fetullah Gulen, la gestione del potere si fa sempre più autocratica nei metodi e oscurantista nelle finalità sociali che persegue. Involuzione che si accentua dal 2015 in seguito alla riapertura del conflitto curdo e l’ondata di instabilità che arriva dalla Siria, fino al salto di qualità autocratico-totalitario di questa estate.
La deriva turca si compie in parallelo alla breve, disastrosa esperienza di governo dei Fratelli musulmani in Egitto, arrivati al potere dopo ottant’anni di anticamera sulla scia della rivolta di piazza Tahrir. La resa dei conti al Cairo viene seguita con grande apprensione da Ankara. La caduta e successiva condanna a morte del presidente Morsi, sostenuto a spada tratta da Erdogan, viene letta come una prova generale di quanto si vorrebbe fare in Turchia, irrigidendo ulteriormente il regime.
Seppur con esiti diversi, tanto la svolta turca quanto quella egiziana rappresentano un’epocale sconfitta per il riformismo politico islamista. In Egitto il golpe militare di al-Sisi riporta il Paese allo status quo ante, ricacciando i Fratelli nella clandestinità o nell’eversione, ma con una ferocia nella repressione sconosciuta al vituperato faraone Mubarak. In Turchia il fallimento dei militari agevola il colpo di Stato di Erdogan, che si porta via le residue speranze riformiste. Il destino autoritario (o peggio) era iscritto nel codice genetico dell’Akp, lupo islamista che si è travestito da agnello liberale per traviare la laica Repubblica turca o il progetto originario è degenerato negli anni del potere? E Morsi non stava già sperimentando la dittatura della maggioranza quando è stato levato di mezzo dai militari?
Un dibattito già sentito ad altre latitudini e in altre famiglie politiche che volevano cambiare il mondo. La risposta è elusiva. Certo è che il progetto politico riformista radicato nell’Islam, di cui come forza di governo resiste solo in periferia il laboratorio tunisino di Ennahda, se non è morto oggi è andato in sonno. E presidiata com’è dai nuovi uomini forti vestiti di cachi e dai vecchi autocrati rimessi in piedi, la politica in Medio oriente è più che mai una terra bruciata. L’ideale per far crescere il sogno dell’aspirante Califfo.
Fonte: Pagina99.it
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