La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 4 agosto 2016

Il ‘fattore Trump’ e la guerra nel Donbass


di Fabrizio Poggi
Sabato scorso la polizia del regime golpista ucraino ha arrestato l’ex capogruppo alla Rada del Partito delle Regioni, Aleksandr Efremov, accusato di “attentato all’integrità territoriale ucraina e atti volti al cambiamento delle frontiere di stato e al rovesciamento dell’ordine costituito”. Poco prima dell’arresto, Efremov era riuscito a trasmettere alcune informazioni, circa i disegni a breve scadenza di Kiev nel Donbass, tesi a convincere l’occidente a inasprire le sanzioni anti russe e a fornire all’Ucraina armi letali. Il piano sarebbe questo: posizionare falsi carri armati, obici e mezzi blindati nelle aree del Donbass controllate da Kiev, su cui gli ucraini stessi spareranno, mostrando quindi in TV gli “attacchi” da parte delle milizie.
Per Kiev sarà l’occasione per la ripresa delle operazioni militari su larga scala. L’incetta di false attrezzature militari da parte di Kiev, sarebbe stata confermata anche da alcuni osservatori militari sul sito “Narodnyj zhurnalist”. In alternativa, il Ministero della difesa ucraino proporrebbe di colpire direttamente il territorio russo, provocando Mosca a reagire. In ogni caso, secondo Efremov, Kiev non ha possibilità di riprendersi il Donbass, né con mezzi pacifici, né militari; quindi, l’unica speranza è in una nuova fase di contrapposizione tra Russia e Occidente.
Sempre in Ucraina, il presidente del Partito radicale, Oleg Ljashkò ha accusato Nadezhda Savcenko di essersi “accordata col Cremlino, ottenendo la liberazione in cambio del tradimento dell’Ucraina”. Il piano di riforma proposto alla Rada dalla neonazista di “Ajdar”, secondo Ljashkò, “non è altro che la federalizzazione del paese: proprio ciò che da due anni pretende la Russia”.
Nel caso di Ljashkò, parla una delle voci più oltranziste della “politica” ucraina e, forse, per le rivelazioni di Efremov, come nota l’agenzia Novorosinform, “avvertimenti ce ne sono stati così tanti che è difficile credere a qualcosa: come nella storiella del pastore e del lupo. Ma proprio per questo non ci si deve assuefare alle avvertenze. E’ difficile stare costantemente all’erta, ma bisogna farlo”.
Al di là delle parole dei radicali golpisti e degli avvertimenti in buona fede, i fatti sono che Kiev, negli ultimi tempi, ha ricevuto materiale militare non letale dagli USA per 117,5 milioni di $: sistemi laser “Miles” per la simulazione di azioni tattiche, stazioni radio “Harris”, apparecchiature mediche, dispositivi di sminamento e visori notturni, oltre a giubbetti antiproiettile, elmetti “Kevlar”, scialuppe a carena rigida “Willard”, radar contro-batteria, fuoristrada “Humvee” e razioni. In tutto, comprese forniture da altri paesi Nato, Kiev ha ricevuto non meno di 170 milioni di $ di attrezzature militari. E queste forniture (ufficiali) consentono a Kiev di concentrare le proprie spese sulle armi letali: solo nella scorsa notte, le truppe ucraine hanno colpito le periferie di Donetsk e di Jasinovata con oltre 470 colpi di mortaio e di artiglieria, di calibro tra i 122 e i 152 mm, come riporta oggi l’Agenzia di Notizie di Donetsk (DAN). Colpiti anche numerosi villaggi nel sud della DNR e altri a ovest di Donetsk e nelle vicinanze di Gorlovka. Alcuni civili ferirti e numerosi edifici danneggiati; secondo il portavoce delle milizie della DNR, Eduard Basurin, nel mese di luglio 1 civile e 11 miliziani sono morti per i bombardamenti ucraini, oltre a 25 civili e 21 miliziani feriti. Sul territorio della LNR, la notte scorsa è stata invece ripetutamente colpita Stakhanov, una sessantina di km a ovest di Lagansk, con artiglierie da 152 mm: tre civili sono rimasti feriti. Secondo i dati dell’amministrazione cittadina, il bombardamento sarebbe stato opera di un reparto della 59° Brigata di fanteria motorizzata ucraina, formata a partire dal battaglione “Poles’e” (dal nome di una delle regioni ucraine in cui si consumarono i massacri dell’UPA) che, nonostante il suo inquadramento nell’esercito regolare, continua ad agire secondo i metodi neonazisti. La ricognizione della DNR segnala da mesi il concentramento di artiglierie e mezzi blindati e corazzati ucraini, ora su un punto, ora su un altro, della linea di separazione tra milizie e forze ucraine, in barba agli accordi di Minsk. In generale, che l’orientamento dominante tra i circoli golpisti ucraini sia quello di “risolvere” con la guerra la questione del Donbass, lo testimoniano anche tutti pretesti messi in campo da Kiev per dilazionare e cercare di far fallire i colloqui di Minsk.
Che anche da parte russa, ci si stia orientando verso un rapporto più “aspro” con Kiev, lo testimonierebbe ora la decisione di Vladimir Putin di sostituire l’attuale ambasciatore Mikhail Zurabov con un “emissario” – evidentemente, per ora, non di rango diplomatico – più pragmatico. Pare che la scelta possa ricadere sul plenipotenziario presidenziale per la regione del Volga Mikhail Babic. Zurabov infatti, ambasciatore a Kiev dal 2009, sarebbe stato lasciato al suo posto, nonostante le sue ripetute richieste di sostituzione, per i suoi legami personali con Petro Poroshenko. Segno questo, notano ad esempio a Vzgljad, che sinora Mosca non aveva abbandonato completamente l’idea di un possibile contatto con un presidente ucraino orientato verso la UE, di contro ad altri elementi della junta dichiaratamente filoamericani. Sembrerebbe così, in base a questa teoria, che ora Mosca non nutra più alcuna speranza di dialogo, con nessuna delle fazioni ucraine, resasi conto del ruolo insignificante di Poroshenko, la cui linea è dettata punto per punto dall’ambasciata USA. In base a un altro punto di vista, il licenziamento di Zurabov sarebbe invece dovuto alle sue non brillanti doti e la sostituzione potrebbe voler dire un tentativo di migliorare i rapporti con Kiev, scesi ora a livello minimo. Zurabov infatti, già amico di Poroshenko da prima del golpe, non avrebbe fatto nulla per impedire la destituzione di Janukovic e ha fatto ben poco negli ultimi due anni. Il Ministro degli esteri Sergej Lavrov ne avrebbe chiesto a più riprese la sostituzione. Altre fonti ipotizzano che, dato che la Rada “non ha adottato il pacchetto di leggi per l’attuazione degli accordi di Minsk, a quanto pare, Mosca ne ha concluso che non ha nulla da perdere, licenziando l’ambasciatore a Kiev”; tanto più che, per ora, la Rada non avrebbe alcuna intenzione di dare il “benestare” ad alcun nome nuovo, chiunque esso sia. Opinione comune, però, è quella che Zurabov non fosse stato finora richiamato (nemmeno dopo il richiamo dell’ambasciatore ucraino a Mosca), proprio per i suoi rapporti “privilegiati” con Poroshenko e per non laciare intentata alcuna possibilità di normalizzare i rapporti Mosca-Kiev.
D’altra parte, scrive Svobodnaja Pressa, in questo momento è lecito considerare anche il “fattore Trump”, che potrebbe spingere Obama a un’avventura nel Donbass. Aleksej Polubota riunisce alcuni momenti: le recenti preoccupazioni espresse dall’ambasciatore russo all’ONU, Vitalij Čurkin, circa la preparazione di una massiccia offensiva ucraina; i timori addirittura “di un politico da sempre fedele all’occidente, quale Mikhail Gorbaciov”, sul pericolo di guerra globale; la retorica di Hillary Clinton sulle “minacce agli Stati Uniti” da parte di “forze potenti”; la riposta russa all’accerchiamento Nato, con il dispiegamento di quattro nuove divisioni nella regione militare sudoccidentale; l’avvicinarsi delle Olimpiadi, ricordando come già in occasione dei giochi di Pechino (attacco georgiano all’Ossetia meridionale) e di Soči (golpe in Ucraina) si sia cercato di assestare colpi geopolitici alla Russia. Tutto questo, potrebbe indicare la vigilia di un nuovo grosso colpo e lo scacchiere sarebbe quello del Donbass.
La domanda è, in ogni caso: si decideranno Mosca e Washington a uno scontro diretto in Ucraina e se sì, su quale scala? Il politologo Mikhail Aleksandrov considera la drammatica situazione economica ucraina, che potrebbe spingere Kiev a ricattare Russia e Occidente, rispettivamente per i 3 miliardi di crediti che l’Ucraina rifiuta di restituire e per esigere nuovi fondi che il FMI gli sta rifiutando: “Ora noi cominciamo la guerra e starà a voi districarvene. Sborsate i soldi”. Ma, scrive Aleksandrov, la fine della grigia presidenza di Obama, potrebbe spingerlo, nella sua mediocrità, a tentare, a fine mandato, di indebolire la posizione russa in Siria, coinvolgendo Mosca in un conflitto nel Donbass, specialmente ora che i rapporti russo-turchi sono migliorati e che, con il richiamo dell’ambasciatore Zurabov, Mosca potrebbe aver scelto una posizione più decisa sul Donbass. A sostegno della possibilità di un tale scenario da parte di Mosca, Aleksandrov cita appunto il dispiegamento delle nuove forze nella regione sudoccidentale. E’ in ogni caso improbabile che la Nato e gli USA si decidano a un confronto diretto: piuttosto, allargheranno il sostegno militare a Kiev. D’altro canto, il “fattore Trump” potrebbe agire nel senso di spingere i falchi USA a tentare ora l’avventura contro la Russia; in caso di vittoria repubblicana, infatti, il centro della contrapposizione USA verrebbe spostato verso la Cina e con ciò crollerebbe tutto il piano di allargamento della Nato in Europa.
Come che sia, le prospettive non sono appetibili per nessuno.

Fonte: Contropiano 

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