di Alessandro Gilioli
Quando in campagna elettorale Virginia Raggi parlò del “modello Sardex”, il suo rivale Roberto Giachetti ironizzò che il M5S voleva “tornare al baratto”. Non sapeva, il candidato del Pd, che negli stessi giorni sul Sardex stava investendo uno dei maggiori venture capitalist italiani, Innogest, insieme a una banca storica come Sella e al ministero dell’Economia, attraverso Invitalia: tutti e tre nuovi soci dell’azienda di Serramanna (Cagliari), appena trasformata in Spa. Mentre Bankitalia ne invita i fondatori a convegni pubblici e incontri riservati, i commissari Ue li chiamano a Bruxelles per capire come hanno fatto, le Nazioni Unite gli richiedono progetti per lo sviluppo in Africa e America latina.
Altro che “baratto”, insomma: il Sardex sembra ogni giorno di più un anticorpo al virus del credit crunch che sta ammazzando l’economia in mezzo mondo.
Per definire correttamente il Sardex bisogna anzitutto capire che cosa non è: non è una moneta virtuale (tipo Bitcoin) e non è un’alternativa all’euro. Si tratta invece di un sistema di misura e di scambio di debiti e crediti interno a un circuito di aziende, fondato sul principio che se qualcuno produce beni o servizi con un potenziale mercato da parte di altre aziende del circuito, questo è già di per sé un valore, indipendentemente dalla liquidità; quindi il circuito può generare ricchezza prima che si materializzi il denaro.
Detta diversamente: i fratelli Cherchi, formaggiai, hanno un modesto bancone di ottimi prodotti in provincia. Vorrebbero ingrandirsi ma non hanno capitale. Chiedono quindi di entrare nel circuito Sardex, dove vengono ammessi dopo che i gestori hanno verificato che i loro prodotti hanno un potenziale di vendita tra le altre aziende del circuito (es.: ristoratori e simili). A quel punto la camera di compensazione del circuito mette a disposizione dei fratelli Cherchi una quantità di crediti Sardex pari a 25 mila euro.
Non essendo il Sardex una valuta convertibile ma un’unità interna al circuito, i formaggiai possono spendere il loro credito di 25 mila Sardex solo dentro il circuito stesso: dove cercano e trovano un’azienda che offre loro un banco refrigeratore con cui possono iniziare a vendere formaggi anche al mercato centrale di Cagliari. Ne consegue un aumento di fatturato, parte del quale avverrà in Sardex, essendo i loro prodotti acquistati, come previsto, anche dai ristoratori interni al circuito. Nel giro di poche settimane, i Sardex incassati dai fratelli Cherchi vendendo formaggi agli altri iscritti superano i 25 mila di debito inizialmente contratto. Insomma il loro conto Sardex va in positivo.
Quindi con i Sardex ricavati (e-o richiedendo nuovi crediti) possono fare nuovi investimenti produttivi, sempre usando come fornitori e clienti aziende interne al circuito.
E così via, potenzialmente, all’infinito.
Punto fondamentale del meccanismo: ogni debito-credito è a interessi zero. In questo modo chi ha il conto Sardex in attivo non è stimolato ad accumulare (i Sardex fermi non servono a niente) ma a spendere: anche perché maggiori sono le spese che si fanno in Sardex anziché in euro, più si saranno risparmiati euro con cui poi pagare tasse e dipendenti. Per contro, chi è “sotto” in Sardex ha interesse ad andare in pari offrendo i propri beni o servizi, perché altrimenti dopo un anno il suo debito verso la camera di compensazione del circuito passa in euro (cosa che in realtà capita raramente, perché i broker del gestore aiutano gli iscritti in rosso a trovare mercato interno).
La spinta contrapposta (creditore che vuole spendere, debitore che vuole ripagare i suoi debiti in beni o servizi) fa tendere tutti verso lo zero, ma soprattutto libera la liquidità e stimola il meccanismo di compravendite, quindi aumenta fatturati: fa girare l’economia, insomma. È forza anticiclica rispetto a recessione e stagnazione. Infatti il Sardex ha una velocità di circolazione di oltre sei volte superiore a quella dell’euro.
Ovviamente la non convertibilità delle unità Sardex impedisce che vi siano “banconote” o altri pezzi di carta al portatore (cosa che tra l’altro sarebbe ai limiti della legge): ogni transazione avviene elettronicamente, su computer o app, e ogni acquisto può essere fatto solo da chi ha ottenuto crediti dal circuito e-o ha venduto beni in Sardex. Il fatto che le unità siano digitali non significa tuttavia che siano “virtuali”: l’accettazione nel circuito Sardex infatti è subordinata alla vendibilità dei prodotti agli altri iscritti. Se, poniamo caso, una ditta producesse astronavi e nessun’altra azienda del circuito fosse interessata ad acquistare astronavi, la richiesta di iscrizione verrebbe rifiutata.
Oggi Sardex ha circa 4.000 partite Iva iscritte nell’isola, più altre 3.000 divise nelle altre 11 regioni in cui la piattaforma sta estendendosi, attraverso controllate o partecipate (ad esempio Tibex nel Lazio, Linx in Lombardia, Liberex in Emilia etc). Il modello di business della società Sardex.net è basato sull’abbonamento annuale che ogni partita Iva paga per far parte del circuito: non c’è alcuna fee sulle transazioni, perché questa disincentiverebbe le compravendite. In media entrano in circuito un centinaio di nuove aziende al mese. Ne sono uscite 200 in tutto da quando Sardex esiste, cioè dal 2010.
La case history dei fratelli Cherchi, proposta poco sopra, non è solo esemplificativa ma anche reale: Michele, 40 anni, padre di due gemelli e ogni mattina al bancone del mercato coperto di Cagliari, spiega che l’ingresso nel circuito è avvenuto due anni fa e ha permesso l’upgrade da Monserrato al capoluogo. La sua soddisfazione non è solo per l’aumento del fatturato, ma anche per il rapporto umano diretto e continuo con i broker del circuito, che diventano quasi dei tutor nell’espansione del loro mercato. Come Michele Cherchi, così quasi tutti gli altri iscritti a Sardex sono i migliori “ambassador” dell’idea tra gli altri imprenditori, non solo perché comunicano la propria esperienza positiva ma anche perché hanno interesse ad ampliare il giro, aumentando così potenziali fornitori e clienti.
Il panorama degli iscritti al circuito, per quanto fondato al 90 per cento da Pmi, è variegato. Si va da Tiscali, la compagnia telefonica, al coltellaio Saddi Piergiacomo di Sinnai, ex detenuto che durante gli arresti domiciliari si è specializzato nel produrre lame artigianali con splendidi manici in corno di montone: oggi che si è messo alle spalle il passato, Saddi e la sua Knife Sardinia fatturano vendite per 50 mila euro annui, di cui quasi metà in Sardex, con i quali l’ex fuorilegge si è comprato anche i pannelli solari e il condizionatore per il suo laboratorio di Sinnai, un quarto d’ora da Cagliari.
In mezzo, tra due estremi come Tiscali e il signor Saddi, ci sono realtà dell’hi-tech come l’azienda di domotica ed energie rinnovabili Ucnet di Elmas, 35 dipendenti, 2,5 milioni l’anno di fatturato: il suo fondatore Ugo Concu ha speso il primo fido di 7.000 Sardex interamente in pubblicità e marketing ed è rientrato del debito in una settimana, vendendo i suoi servizi agli altri iscritti. Oppure c’è Ivano Quarantiello, proprietario del colorificio Rimar (fondato nel 1970 dal calciatore Angelo Domenghini): fattura un milione di euro l’anno, con le prime 10 mila unità di debito ha ripristinato un macchinario industriale, oggi fa girare circa 40 mila Sardex l’anno e ci paga di tutto, dalla bolletta del telefono (Tiscali) alla cancelleria, dallo smaltimento rifiuti ai fornitori di bitume, dalle parcelle dell’avvocato a quelle del commercialista; vendendo ovviamente le sue vernici agli altri iscritti del circuito. «Zero recupero crediti, zero ritardi nei pagamenti, zero commissioni bancarie, zero interessi, zero fideiussioni: insomma zero rotture di scatole», sintetizza Quarantiello. Unica spesa in euro a ogni fattura in Sardex: l’Iva, che viene ovviamente versata in valuta reale allo Stato.
La presenza nel circuito di tante ditte individuali ha gradualmente fatto uscire il Sardex dal solo scambio nel mercato aziendale. Insomma, sempre più persone lo usano per fare la spesa o simili. Come Manuela Statzu, agente di commercio con partita Iva, che da qualche azienda si fa pagare gli onorari anche in Sardex e ora usa i suoi crediti davvero per tutto: affitto, dentista, estetista, ottico, abbigliamento, veterinario e pure crocchette per il gatto. Il suo entusiasmo per il progetto la porta a partecipare anche alle iniziative sociali e culturali del circuito, come gli AperiSardex, che ovviamente avvengono nei locali convenzionati dove si paga in Sardex anche il Vermentino.
L’estensione al mercato consumer sta insomma avvenendo in modo quasi naturale, ma i fondatori di Sardex.net stanno per formalizzarlo a partire dal prossimo ottobre: chi non ha partita Iva e quindi nulla da vendere al circuito, potrà ottenere Sardex come se fossero dei punti premio del supermercato, cioè facendo acquisti (in euro) da aziende iscritte, quindi spendendolo nel circuito.
Ma anche questo, così come la possibilità di scambiarsi beni o servizi da una regione all’altra attraverso l’intercircuito (Sardex per Tibex, ad esempio) è un passaggio che l’azienda di Serramanna vuole fare in modo molto graduale, un po’ per l’esigenza di mantenere stabile l’equilibrio virtuoso che finora ha consentito la crescita un po’ per preservare il telaio culturale e ideale che ha costituito fin dall’inizio la cornice del tutto: in fondo Sardex nasce da quattro ragazzi di ritorno dal continente e dall’estero desiderosi di dare una mano alla microimprenditorialità locale strozzata dalla crisi di liquidità.
E dietro il progetto ci sono riflessioni anche di ordine politico, seppur in senso lato, che portano uno dei founder - Carlo Mancuso - a citare il concetto di “intelligenza connettiva” (Derrick de Kerckhove) e a ispirarsi alla teoria dei giochi a somma positiva di John Nash, spiegando che «Adam Smith è superato e le comunità saranno la nuova valuta». Per un altro del nucleo storico di Sardex, Franco Contu, «non si può capire davvero Sardex se non si fa propria l’idea che il valore del denaro non sta nell’accumulo ma nella circolazione, mettendo al centro dei rapporti la fiducia e la reciprocità: chi fa parte del circuito è dentro anche per partecipare a un processo di cambiamento collettivo e sullo sfondo c’è l’obiettivo di riscrivere un patto sociale». E, ancora, il cofondatore Gabriele Littera insiste sul fatto che «con Sardex è stato creato un modello umano prima ancora che economico», e il riferimento è anche al fatto che - lungi dall’essere una semplice piattaforma informatica - Sardex è una rete di relazioni de visu, compresa quella dei broker che facilitano gli interscambi e hanno una contiguità ininterrotta con il territorio, con i piccoli imprenditori e le loro quotidiane difficoltà.
Di qui anche i progetti sociali di Sardex, che si declinano nell’elaborazione di modelli per i Paesi in via di sviluppo ma anche nell’offerta ai Comuni italiani di sistemi di sostegno delle fasce di povertà estrema attraverso lo stesso principio: invece di cash, le istituzioni possono dare a chi è in grave difficoltà un conto in unità di credito spendibile solo in un circuito di beni realmente utili (alimentari, farmacie etc) e non al videopoker o al negozio di superalcolici. Allo stesso modo, il know how su cui è basato il circuito può tornare utile in altri contesti: ad esempio, Littera e gli altri hanno elaborato un progetto per superare le lungaggini di pagamento da parte della pubblica amministrazione e per rilanciare la piccola impresa nella realtà europea dove il denaro è più fermo, cioè la Grecia.
Si tratta, in questi casi, di modelli che Sardex non gestirebbe ma offre chiavi in mano al pubblico, perché ora quella di Serramanna è comunque una Spa, con i suoi azionisti, i suoi profitti, i suoi dipendenti (una sessantina in tutto, tra broker, softwaristi e altro). E, da gennaio, anche un nuovo direttore generale con esperienze che mancavano ai fondatori, Nicola Pirini, il cui compito sarà quello di traghettare Sardex da esperimento locale a realtà nazionale e internazionale - ci sono già contatti in Inghilterra e in Spagna - fino all’obiettivo del collocamento in Borsa che Pirini pianifica «entro il quinquennio, probabilmente non a Milano ma all’estero». Una public company, nell’idea dei fondatori, che abbia come principali azionisti gli stessi iscritti ai circuiti.
Un sogno? Può darsi. «Ma», dice Littera, «anche il nostro modello di crediti e scambi win-win era considerato un’utopia. Ed è questa la nostra vera sfida: dimostrare che l’economia collaborativa e basata sulla fiducia funziona meglio di quella avida e fondata sull’accumulo. Una verità basata sui fatti, sui dati, sull’esperienza. Un po’ come quando qualche secolo fa qualcuno disse che no, la Terra non è piatta, anche se si era sempre creduto così».
Fonte: L'Espresso - blog Piovono Rane
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