di Enrica Rigo e Nick Dunes
Il titolo del regolamento interno della Croce Rossa Italiana (CRI) le definisce «strutture di accoglienza dei cittadini migranti stagionali». A leggerlo senza conoscerne il contesto, si potrebbe pensare a una sorta di colonie estive destinate a cittadini privilegiati che trascorrono parte dell’anno nella residenza di città e con la bella stagione si traferiscono al mare o in campagna, magari per godersi i frutti e il meritato riposo di una vita di lavoro. Basta però scorrere qualche riga per rendersi conto che i «cittadini migranti stagionali» non sono altri che i «lavoratori stagionali extracomunitari», che ogni anno sono impiegati nella raccolta del pomodoro nei comuni di Venosa e di Palazzo San Gervasio.
L’involontaria ironia del titolo del regolamento rivela un’incontestabile verità: ormai da alcuni anni, una quota della manodopera impiegata nella zona è composta da lavoratori originari dell’Africa sub-sahariana che si spostano seguendo il ciclo delle raccolte, da Cassibile, a Rosarno, a Nardò, a Foggia, alla Basilicata. Un conto è tuttavia riconoscere l’estrema mobilità dei lavoratori – che, in questo senso, sono certo «migranti stagionali» – un altro èrispondere alle loro richieste alloggiative sovrapponendo ipocritamente mobilità ed emergenzialità, in una confusione di piani che delega a strumenti di carattere umanitario-emergenziale esigenze che dovrebbero invece essere affrontate con politiche sociali e abitative.
L’involontaria ironia del titolo del regolamento rivela un’incontestabile verità: ormai da alcuni anni, una quota della manodopera impiegata nella zona è composta da lavoratori originari dell’Africa sub-sahariana che si spostano seguendo il ciclo delle raccolte, da Cassibile, a Rosarno, a Nardò, a Foggia, alla Basilicata. Un conto è tuttavia riconoscere l’estrema mobilità dei lavoratori – che, in questo senso, sono certo «migranti stagionali» – un altro èrispondere alle loro richieste alloggiative sovrapponendo ipocritamente mobilità ed emergenzialità, in una confusione di piani che delega a strumenti di carattere umanitario-emergenziale esigenze che dovrebbero invece essere affrontate con politiche sociali e abitative.
I due centri di Venosa e Palazzo San Gervasio rappresentano, al momento, un’esperienza ancora isolata. Pensati dalla cosiddetta task-force della Regione Basilicata per risolvere il problema dei ghetti, sulla scia di quanto proposto anche dalla Regione Puglia (dove strutture analoghe sono rimaste vuote), si tratta di campi destinati ai lavoratori, ma realizzati sul modello di campi profughi. A confermarlo, durante un’intervista realizzata dall’Università Roma TRE, è lo stesso volontario della CRI responsabile delle strutture, che ha maturato la sua esperienza nella gestione di un CARA durante l’emergenza nord-Africa del 2011, nonché nella gestione dell’emergenza dopo il terremoto in Abruzzo. Come specifica l’operatore, a differenza di quanto accade nei centri per richiedenti asilo, l’ospitalità nella struttura è demandata all’adesione del tutto volontaria dei lavoratori, e questo comporta altresì che «chi non lavora non mangia», dal momento che nessun servizio ulteriore è assicurato dalla CRI, neppure la distribuzione dei pasti. Ai migranti è assicurata la possibilità di utilizzare alcuni punti cottura (inizialmente erano garantiti 11 fornelli elettrici, il cui numero si è progressivamente ridotto a 4 per mancanza di manutenzione), oltre all’utilizzo dei servizi igienici (attualmente 4 bagni e 4 docce per i 70 lavoratori alloggiati nel centro di Venosa). Ciò che, a detta dell’operatore, i migranti chiedono con più insistenza sono però i materassi, poiché i posti letto sono attrezzati solo con brandine da campeggio: richiesta che tuttavia non viene soddisfatta per ragioni legate alla sicurezza del campo. D’altro canto, è noto che le rivolte nei CIE e nei CARA prendono quasi sempre avvio bruciando i materassi.
Negli ultimi tre anni, la Regione Basilicata ha stanziato per i due centri di Venosa e Palazzo San Gervasio 150 mila euro a stagione di raccolta. Considerato che il centro di Venosa ospita attualmente 70 lavoratori e quello di Palazzo San Gervasio circa 30, la stessa cifra potrebbe forse essere convertita in un contributo per l’affitto che, per il mercato della zona, risulterebbe certo sostanzioso. L’obiezione, seppure ragionevole, fuoriesce dalle logiche con le quali la questione è stata affrontata in questi anni dagli apparati istituzionali e, in ogni caso, è liquidata dall’operatore del centro con la perentoria affermazione che nessuno affitta le case ai lavoratori migranti. E sì che la (giustamente deprecata) normativa sull’immigrazione obbligherebbe i datori di lavoro a garantire un alloggio adeguato alla manodopera… (ma nonostante il rilievo possa essere degno di nota, non si chieda certo a noi di difenderla!).
Al di là della doverosa denuncia delle condizioni nelle quali sono alloggiati i lavoratori, una riflessione più pacata meritano le risposte istituzionali che sembrano prendere sempre più piede nella gestione della forza lavoro, in particolare di quella migrante. L’aspetto peculiare del centro è infatti la funzione – neppure troppo velatamente – disciplinare che assolve. L’accesso dei visitatori è limitato e sottoposto a stretti controlli. Le visite istituzionali devono essere richieste in anticipo, mentre nell’area esterna al capannone che un tempo ospitava la cartiera e oggi funge da dormitorio per i lavoratori sono state allestite due tende «per consentire agli ospiti di intrattenersi con i propri parenti», ai quali è comunque richiesta «la registrazione temporanea previo presentazione del permesso di soggiorno in corso di validità». Una condizione quest’ultima la cui ratio non è del tutto chiara, visto che neppure i pacchetti sicurezza dei governi leghisti erano arrivati a chiedere l’esibizione del permesso di soggiorno per espletare attività di socialità. Inutile dire che tali restrizioni si traducono in una condizione di quasi segregazione per i migranti che, seppure liberi di andarsene, hanno limitati contatti con l’esterno e hanno a disposizione solo un servizio di navetta per il vicino centro urbano (non per i luoghi di lavoro… poiché anche questo esula dai servizi che la Regione ha pensato di offrire ai braccianti). È certo vero che, fortunatamente, non ci sono file di parenti in attesa di entrare nel centro per far visita ai lavoratori. Le restrizioni imposte dal regolamento colpiscono per lo più le organizzazioni antirazziste e sindacali, nonché i gruppi di attivisti presenti sul territorio, le cui attività a sostegno dei lavoratori immigrati devono passare per sfibranti lacciuoli burocratici e il cui ingresso al centro è sempre guardato con sospetto.
Nelle spiegazioni ufficiali, le limitazioni imposte al diritto di visita sono giustificate dalla necessità di proteggere i lavoratori dalle intrusioni dei caporali. Una funzione di controllo che gli operatori del centro ammettono di svolgere anche informalmente rispetto agli «ospiti», prestando attenzione a chi, di ritorno dalla giornata di lavoro, mostra davvero i segni della fatica o, al contrario, indossa ancora «le scarpe pulite». Il vero problema è, tuttavia, che le giornate di lavoro sono sempre meno. Nelle intenzioni della task-force regionale, l’istituzione dei centri doveva essere accompagnata dall’iscrizione dei braccianti in liste di prenotazione attraverso le quali i datori di lavoro potevano reclutare la manodopera senza necessità di passare per l’intermediazione dei caporali; ma alle quali nessun datore di lavoro si è mai rivolto. Il risultato è che – come lamentano i lavoratori con i quali abbiamo parlato – chi sta nel centro della Croce Rossa fatica a trovare giornate di lavoro, perché in quel luogo i caporali non vanno a prenderli e bisogna ingegnarsi per arrivare nei campi dove avviene il reclutamento.
Nel 2016, il centro CRI di Venosa ha aperto a maggio, in anticipo rispetto alla stagione, così da trovarsi pronto al trasferimento dei migranti provenienti dal ghetto di Boreano che, dopo ripetute minacce di sgombero, è stato infine raso al suolo a fine luglio. Quello dei cosiddetti ghetti, come vengono chiamati gli agglomerati abitativi in parte auto-costruiti dove si radunano i braccianti stagionali, è certo uno dei nodi più complessi da analizzare, nonché da decostruire. Lo stesso termine «ghetto» dovrebbe forse essere messo in questione: se l’intento è quello di evocare una condizione di isolamento fisico e simbolico, i ghetti autocostruiti rischiano di apparire come regni di socializzazione e autodeterminazione nel confronto con le strutture istituzionalmente deputate a superarli. Non si tratta certo di sottovalutare le pesanti condizioni in cui i braccianti si trovano a vivere, quanto piuttosto di sottolineare l’ambivalenza della funzione che spesso i ghetti svolgono. Per rimanere al solo esempio di Boreano, nelle vicinanze del ghetto è nata una scuola di italiano che, per alcuni anni, ha funzionato da esperienza di aggregazione sia per gli attivisti sia per i braccianti. Attorno al ghetto, o proprio per rivendicare condizioni alloggiative e lavorative migliori, sono inoltre nate alcune delle mobilitazioni che segnalano spiragli di ripresa di un movimento bracciantile, così come scritto da Domenico Perrotta (Braccianti in movimento, in «Lo straniero», ottobre 2016). I migranti preferiscono i ghetti ai campi allestiti dalle istituzioni proprio perché le reti che si instaurano in questi luoghi facilitano la possibilità di essere reclutati per il lavoro in campagna, una caratteristica che, almeno potenzialmente, è atta a favorire anche altre forme di organizzazione dei lavoratori.
Ciò su cui vale la pena interrogarsi è, però, la centralità che l’obbiettivo di «bonificare» i ghetti ha assunto nel discorso politico-istituzionale, non solo a livello locale (si veda, per esempio, il «Protocollo sperimentale contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura Cura – Legalità – Uscita dal ghetto», firmato a Roma lo scorso 27 maggio). Centralità alimentata da inchieste mediatiche sensazionalistiche, quando non smaccatamente islamofobiche, come nel caso di un recente servizio, pubblicato da l’«Espresso», su una supposta persecuzione dei cristiani presenti nel ghetto di Rignano vicino a Foggia, che è stata smentita dalla stessa Caritas. L’obbiettivo politico di sbarazzarsi dei ghetti a ogni costo funziona come potente giustificazione di ogni soluzione alternativa, considerata comunque «un male minore», così come nel caso dei centri allestiti a Venosa e Palazzo san Gervasio. Vista in quest’ottica, l’insistenza a rappresentare e riconoscere i migranti solo in quanto vittime di abusi, e non come lavoratori portatori di diritti, non sembra dunque un’ingenua manchevolezza di prospettiva alimentata da spirito caritatevole e assistenziale. Essa appare piuttosto una modalità perfettamente coerente con le logiche governamentali di gestione della forza lavoro improntate all’abbassamento dei costi e all’incremento dei profitti.
Non è un caso che i centri allestiti in Basilicata per i lavoratori siano gestiti dalla Croce Rossa, ente umanitario per eccellenza. Nel discorso giuridico, il paradigma umanitario trova la sua genesi nella guerra, in quella scissione tra lo ius ad bellum e lo ius in bello che impone un’amputazione dell’ambito cognitivo e discorsivo di cui deve occuparsi il diritto: compito del diritto umanitario è quello di alleviare le sofferenze, disinteressandosi delle cause che le hanno prodotte. Paragonando l’esperienza del CARA a quella del centro per lavoratori stagionali, il responsabile della CRI ci spiega che «lì c’erano gli scafisti, qui i caporali», in entrambi i casi riconoscibili perché parlano l’italiano meglio degli altri. Così come le morti dei migranti nel Mediterraneo trovano negli scafisti un colpevole perfetto, in grado di assolvere tutti gli altri responsabili – sia che si tratti delle politiche di governo dei confini, sia che si tratti dei dittatori con cui l’Europa stringe accordi per il controllo delle migrazioni –, allo stesso modo l’enfasi sui caporali taglia fuori dalla scena gli altri attori della filiera produttiva, dalle industrie di trasformazione, alla grande distribuzione che oggi determina i prezzi dei prodotti agricoli e la conseguente contrazione dei costi di produzione.
L’involontaria ironia del titolo del regolamento della CRI dovrebbe allora essere di monito per tutti.Quello che ci aspetta dopo lo stato sociale potrebbe essere un nuovo «welfare umanitario». La nostra vecchiaia non sarà allietata dalla vita di campagna, perché la liquidazione sarà sempre più un prodotto finanziario e la pensione una chimera. Ci potrebbero essere invece soggiorni organizzati in centri della Croce Rossa; colonie per la terza età dove potremo anche noi renderci utili, magari pulendo spiagge o togliendo sterpaglie dagli argini, così come oggi viene proposto ai richiedenti asilo.
Immagine di Carlo Caprioglio e Ilenia Tassi
Fonte: connessioniprecarie.org
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.