di Michele Giorgio
«È stato un viaggio lungo, durato tre mesi, da Homs fino alla frontiera con la Giordania«. Firas Hussein, 47 anni, parla a bassa voce, fissando un armadietto malandato nella stanza, come se il film di quella fuga dalla guerra, dalla morte, gli scorresse all’improvviso davanti agli occhi. «Ogni giorno percorrevamo qualche chilometro con trasporti di fortuna o a piedi – racconta – i combattimenti e le sparatorie bloccavano le strade. Molte notti le abbiamo trascorse in case semidistrutte, abbandonate.
Quando abbiamo visto la frontiera e poi Zaatari (il più noto dei campi per profughi siriani in Giordania, ndr) pensavano di aver raggiunto il paradiso. Invece era l’inferno, la vita lì era impossibile. Dopo qualche giorno siamo scappati e siamo venuti qui, nel campo di Nasser, dove ci hanno accolto i fratelli palestinesi».
Quando abbiamo visto la frontiera e poi Zaatari (il più noto dei campi per profughi siriani in Giordania, ndr) pensavano di aver raggiunto il paradiso. Invece era l’inferno, la vita lì era impossibile. Dopo qualche giorno siamo scappati e siamo venuti qui, nel campo di Nasser, dove ci hanno accolto i fratelli palestinesi».
Hussein, sua moglie e i suoi figli sono una delle tante di famiglie siriane che hanno trovato una casa a Nasser, un campo palestinese non riconosciuto alla periferia estrema di Amman dove vivono migliaia di rifugiati della Nakba (1948) e della Naksa (1967). Uomini, donne e bambini che godono di pochissimi servizi. Le Nazioni Unite garantiscono aiuti umanitari, la scuola per i bambini e poco più. Per il governo giordano, il campo di Nasser di fatto non esiste, è solo un ammasso di case alla periferia della capitale. In queste povere abitazioni, in queste stradine strette e sporche, camminano ora anche Firas Hussein, i suoi familiari e tanti siriani scappati dalla guerra.
Si apre la porta della stanza, piano piano. Si sentono voci di donne. Una bambina fa capolino, poi scappa via. «Ad Homs avevamo una abitazione vera, qui viviamo come possiamo, sopravviviamo grazie a loro», prosegue Firas, indicando con un cenno della testa Abu Mujahed e Abu Mahmoud, seduti davanti a lui, palestinesi che a Nasser ci sono nati e cresciuti e forse ci moriranno senza tornare nella loro terra. «Non abbiamo soldi – prosegue Firas – con il contributo che ci passano le organizzazioni umanitarie paghiamo l’affitto e compriamo qualche scatoletta, un po’ di riso, patate…Non ho vergogna ad ammettere che delle volte cerco di recuperare qualcosa dal cassonetto dei rifiuti giù sulla strada principale». Il suono lontano di una campanella segnala la fine delle lezioni nella scuola dell’Unrwa. I bambini come stormi di uccelli si disperdono veloci nelle strade del campo. A scuola in Giordania ora ci vanno anche i piccoli siriani. Il governo ha dato il via libera dopo aver ottenuto assicurazioni di ulteriori finanziamenti al regno hashemita. E’ un punto sul quale re Abdallah e altri esponenti dell’esecutivo battono molto in sede internazionale. «I nostri bambini possono andare a scuola, hanno la loro vita. Invece noi adulti non possiamo lavorare, il governo lo vieta, ed è dura quando devi dare da mangiare ad una famiglia. La carità non basta», commenta Firas.
Nonostante il divieto i circa 700mila profughi siriani in Giordania fanno di tutto per lasciare i campi e per raggiungere una città o uno dei 125 insediamenti informali nei governatorati settentrionali di Mafraq e Irbid, alla ricerca di un lavoro. Tanti preferiscono andare ad Amman, dove riescono a trovare più facilmente occupazioni in nero entrando però in conflitto con i disoccupati giordani. Tareq Barakat, 19 anni di Deraa, fino a qualche settimana fa viveva a Azraq, nel deserto orientale della Giordania, destinato a diventare il campo più grande con una popolazione totale di 130.000 profughi. »Ad Azraq stanno allestendo alloggi prefabbricati e portano roulotte – riferisce Barakat – presto ci saranno anche due scuole e un ospedale ma per me è solo una grande prigione. Esercito e polizia intimano di non uscire alla gente, di non lasciare il campo. Stando lì ho capito che sarei rimasto a marcire e sono scappato, perchè voglio lavorare e non passare il tempo su di un materasso aspettando che finisca la guerra in Siria». Anche Tareq Barakat vive a Nasser. »Non posso permettermi di pagare un affitto ad Amman e qui ho trovato una famiglia (palestinese) che mi ospita per pochi dinari». Il giovane racconta di sparatorie, esecuzioni sommarie, di distruzioni immense in Siria. Ma non ha alcuna voglia di partire per l’Europa come hanno fatto tanti altri siriani. »Voglio tornare lì, in Siria, voglio tornare a Deraa», dice alzando gli occhi al cielo.
Chi è riuscito a raggiungere Amman si reputa fortunato, nonostante le difficoltà e i divieti delle autorità. A nord la Giordania ha deciso di chiudere i confini, ha detto basta ad altri profughi e non lascia avvicinare i giornalisti, ufficialmente per ragioni di sicurezza dopo l’attentato suicida compiuto dall’Isis che ha ucciso sette guardie di frontiera vicino Rukban, lo scorso 21 giugno. Un passo catastrofico per i 75mila rifugiati che in quella zona vivono intrappolati in una terra di nessuno. Un recente rapporto di Amnesty International, che include immagini riprese dai satelliti, rivela la crescita delle dimensioni di Rukban. Se un anno fa c’erano 363 tende e altri rifugi di fortuna, adesso se ne contano oltre 8mila. La popolazione ha difficoltà ad accedere al cibo e cure mediche e vive in precarie condizioni igienico-sanitarie. L’epatite ha ucciso 10 profughi nel mese di giugno. »La situazione del campo – ha commentato Hassan Tirana, di Amnesty – è una fotografia cupa delle conseguenze del fallimento della condivisione delle responsabilità circa la crisi globale dei rifugiati. Per effetto di questo fallimento molti paesi confinanti con la Siria hanno chiuso le loro frontiere ai profughi».
Le cose non vanno molto meglio a Zaatari, dove in passato gli abitanti hanno protestato con forza contro le condizioni di vita. Governo e monarchia confermano la linea dura che maschera la difficoltà di trovare una risposta adeguata alle tensioni tra profughi e cittadini giordani già insofferenti verso i rifugiati palestinesi che pure vivono nel Paese da decenni. »Da un punto di vista sociale sono cambiate tante cose negli ultimi 15 anni» spiega l’analista Mouin Rabbani »dopo la guerra e l’occupazione anglo-americana dell’Iraq, la popolazione giordana accolse centinaia di migliaia di profughi iracheni. Non li amava però li accettava anche perché molti tra questi erano benestanti, portarono con loro tanti soldi e procurarono persino occasioni di lavoro ai giordani. I siriani sono più simili ai giordani degli iracheni ma la gente vuole cacciarli via lo stesso perché, essendo poveri, sono pronti a fare ogni lavoro togliendolo in teoria ad un giordano».
Nessuna tensione tra palestinesi e siriani a Nasser. «Penso che in situazione del genere dare una mano a chi ne ha bisogno sia prioritario – dice Abu Mujahed – Ed è questo che la gente del campo sta facendo con generosità. Con i nuovi arrivati talvolta emergono differenze, opinioni politiche diverse…Ad esempio io non credo che quella in corso in Siria sia una rivoluzione genuina, per me è un complotto di Israele e Stati Uniti, mentre Firas (Hussein) pensa che sia giusto abbattere Bashar Assad. Questo però non impedisce un rapporto sereno tra di noi, Siamo entrambi profughi». Abu Mujahed, indossa una uniforme militare e al collo porta una vistosa kufiye palestinese. Si augura che il mondo torni ad occuparsi della questione palestinese. »Adesso tutti parlano dei profughi siriani ed è giusto così. Hanno la priorità – sottolinea il palastinese – però non dovete dimenticarci. Se i siriani hanno diritto di tornare alle loro case, nella loro terra, quel diritto lo abbiamo anche noi palestinesi».
Fonte: Il manifesto
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