di Roberto Romano
Il consenso sul piano nazionale Industria 4.0 (qui) non è mai stato così ampio. In molti si spingono a sostenere che dopo tanti anni il paese riprenderà in mano le redini di una sana politica industriale. Industria 4.0 significa 4° rivoluzione industriale; un modo per dire che stiamo vivendo una grande fase di transizione. Secondo il governo e altri centri di ricerca si tratta di robot intelligenti, interconnessi e collegati via internet. Solo pochi anni addietro la parola d’ordine era green economy, ma la politica e l’immaginario collettivo ha bisogno di essere alimentato da nuove suggestioni. La post-modernità ha i suoi riti e metafore (N. Franceschin e L. Demichelis).
L’aspetto curioso e per alcuni versi sorprendenti è il tratto distintivo del piano nazionale: tutti gli assets individuati sono legati alla così detta tecnologia della comunicazione e dell’informazione (ICT): robot collaborativi e interconnessi; stampanti 3D; realtà aumentata a supporto dei processi produttivi – qualcuno mi spiegherà cosa significa -; integrazione delle informazioni; interazione tra processi produttivi e prodotti – perché questa divisione? -; analisi di un’ampia base di dati per ottimizzare i prodotti.
Sebbene tutto questo possa apparire innovativo-nuovo, è il caso di ricordare che queste tecniche sono maturate e cresciute a cavallo degli anni 2000. Annoverare le tecniche individuate dal governo come parte integrante della 4° rivoluzione industriale è come salire sulla macchine del tempo. Indiscutibilmente per le imprese italiane così de-specializzate sembra di incamminarsi verso un’altra, ma le imprese nel mondo queste cose le fanno da tempo e senza tanti incentivi fiscali. Se questa è la tecnica superiore di produzione dell’industria italiana, come dobbiamo interpretare le imprese europee, statunitensi, giapponesi e cinesi – proprio la Cina – che cominciano a fare ricerca e sviluppo su i nuovi materiali, il tessile non tessile, la produzione e lo stoccaggio di energia da fonti rinnovabili, la biogenetica, meccatronica, chimica, ecc.?
Il governo immagina anche di riscrivere le teorie delle imprese, in particolare quella delle economie di scala: «E’ plausibile la produzione di piccoli lotti (beni e servizi) ai costi della grande scala». Altro che Marshall e la sua distinzione tra breve e lungo periodo, oppure la tesi secondo cui lo sviluppo tecnologico tende a rafforzare le economie di scala. Evidentemente il ministro Calenda è depositario di una qualche teoria economica sconosciuta. Non a caso il così detto piano nazionale è molto diverso da quello di Stati uniti, Francia e Germania. In questi paesi il ruolo pubblico non è solo di finanziatore, gioca un ruolo importante. Inoltre, la Germania ha un piano d’azione che coinvolge i grandi player industriali e tecnologici. Perché le economie di scala sono valide in Germania e da noi sono desuete?
Tutte le iniziative del governo hanno un solo taglio: iper-ammortamenti per gli investimenti (dal 140% al 250%); credito di imposta per ricerca e sviluppo dal 25% al 50% (interna); detrazioni fiscali; detassazione sui capital gain su investimenti di medio periodo. Il governo, infatti, è neutro davanti alla tecnologia e le imprese sanno ben cosa fare. Secondo Calenda il piano vale 13 mld di euro tra il 2017 e il 2020. Possiamo ben discutere dell’efficacia delle misure, ma ricordiamo che sono risorse già disponibili e stanziate, salvo una frazione.
Il ministro sostiene che gli investimenti privati passeranno da 80 a 90 mld (il Sole24ore, 21 settembre 2016). Quante di queste risorse finanziarie destinate all’acquisto di robot e simili si tradurrà in robot e simili realizzate in Italia? Guardiamo alla bilancia tecnologica dei beni strumentali, intermedi e di consumo dell’Italia. Dopo tanti anni di de-specializzazione e mercato, l’industria italiana vive solo di competitività di prezzo mentre nel mondo si commerciano beni e servizi poco sensibili alla variazione di prezzo. Questa è la realtà che dobbiamo affrontare.
Fonte: Il manifesto
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