di Rachele Gonnelli
Tremano, si isolano, hanno incubi, disturbi dell’attenzione a scuola, aggressività improvvise, balbuzie, psoriasi. «Si sentono sciagurati, hanno continuo flashback, si colpevolizzano». Agnese – «il mio cognome non interessa sono solo una delle tante» – è una zia affidataria di due orfani di un femminicidio e il suo racconto, che legge, nell’aula Aldo Moro della Camera dei deputati è dettagliato e commovente. Racconta la sua esperienza a fianco di due bambini di 12 e 10 anni che le sono arrivati in casa due anni fa ancora sconvolti da ciò che avevano visto e vissuto.
«Sono i figli di mia sorella Silvana» – spiega Agnese – maestra di scuola materna uccisa dal marito, guardia giurata, con tre colpi di pistola. «Il loro è un triplice dramma – continua – si sono trovati d’un colpo orfani di entrambi i genitori, anche se il padre è ancora vivo, in carcere, hanno vissuto la guerra, con spari e sangue in casa, nel posto che sarebbe dovuto essere il più sicuro e protetto, e lo shock di un terremoto, perché sono usciti nudi da quella casa, sotto sequestro, senza poterci rientrare neppure per prendere i loro giochi, i vestiti, i libri di scuola».
Agnese, insieme al marito Giovanni Paolo, hanno accettato di partecipare al convegno che si è svolto ieri a Montecitorio per la presentazione delle linee guida d’intervento per quelli che vengono internazionalmente definiti special orphans e sono, a tutti gli effetti, vittime non riconosciute anche loro della violenza contro le donne. Non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa di loro si parla poco e si conoscono poco i loro bisogni, i loro traumi. È stato realizzato un primo studio -«Switch-off» – finanziato dalla Ue, guidato in Italia dalla criminologa Anna Costanza Baldry, presso il dipartimento di psicologia della seconda università di Napoli in collaborazione con la rete Dire dei centri antiviolenza, che si è sviluppato con le stesse metodiche anche a Cipro e la Lituania. Altri due studi precedenti sono segnalati in Germania e in Olanda. Stop.
Lo studio, presentato dalla stessa Baldry ieri sia al convegno che in un incontro privato con la presidente della Camera Laura Boldrini, non è di tipo accademico ma «sul campo» – come si dice in gergo – perché il campione dei ragazzi o dei loro tutori intervistati non è rappresentativo sul piano nazionale. Dei 1.628 orfani di femminicidio di cui si è trovata traccia negli ultimi quindici anni, solo in 123 hanno accettato di collaborare e di sottoporsi alle domande dei ricercatori. Alcuni a distanza di molti anni dall’evento tragico che ha colpito la loro famiglia.
Ne emerge comunque un quadro significativo, ad esempio nell’84% dei casi i figli hanno assistito all’assassinio della madre e nell’81% dei casi hanno assistito a episodi precedenti di violenza in casa, un focus che ha consentito di definire le linee guida di ciò che manca per attenuare il loro trauma. In primis il riconoscimento di essere essi stessi vittime di secondo grado del femminicidio, come ha riconosciuto la Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano. Titti Carrano, presidente di Dire, sostiene che «i figli, anche se testimoni della violenza, non vengono quasi mai ascoltati dal giudice, che pure potrebbe farlo tramite l’incidente probatorio, poi si tende sempre a privilegiare la bi-genitorialità e perciò non si sospende immediatamente, come si dovrebbe, la genitorialità del padre impedendo incontri nell’immediato e riflessi in ambito civile».
Agnese, la zia affidataria, aggiunge che oltre a un sostegno al reddito che favorisca l’affidamento alle famiglie parentali fino al quarto grado, un sostegno economico sarebbe giusto darlo a tutti. «Ho scoperto – dice – che a Milano si sono posti il problema del perché 1.500 famiglie parentali in trent’anni avevano rinunciato all’affidamento degli orfani per impossibilità economica. Dal 2012 hanno erogato 350 euro al mese a minore affidato e hanno ridotto i costi. Le rette delle case famiglia e delle comunità vanno infatti dai 2 mila ai 6 mila euro mensili».
Altro problema segnalato: una volta sospesa dal giudice la responsabilità genitoriale del padre femminicida, per le questioni di eredità viene nominato un tutore, che molto spesso però è lo stesso ente che assiste il minore. «I tempi sono lunghi e il conflitto d’interesse evidente», conclude Agnese.
Fonte: Il manifesto
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