di Rita Plantera
Le scene da warzone alla Wits sono quasi un ritorno al passato, quando gli studenti protestavano contro le barbarie che milioni di neri erano costretti a subire per volere di un governo di minoranza bianca figlio di una generazione di colonizzatori europei. Erano i tempi dell’apartheid, gli anni ’80, quanto alla University of the Witwatersrand, più comunemente nota come Wits, il movimento studentesco era capofila delle rivolte anti-governative. Nel 1986 si combatteva contro il regime dell’apartheid, in questi giorni contro il governo di Jacob Zuma e del movimento di liberazione dell’African National Congress (Anc).
Era fine maggio 1986 quando la polizia con fruste e gas lacrimogeni arrestò più di 50 persone in proteste organizzate a Cape Town e a Johannesburg e la Wits era teatro di una delle peggiori giornate di violenza politica mai vista in uno dei collegi prevalentemente bianchi del paese. Mentre a Cape Town gli studenti dimostravano contro il Republic Day holiday, 25esimo anniversario della creazione della Repubblica del Sud Africa dopo l’uscita dal Commonwealth britannico.
L’epilogo delle proteste di martedì scorso è stato l’arresto di 31 studenti con l’accusa di aver bloccato l’ingresso dell’università, oltre a scontri violenti con la polizia e le forze di sicurezza dell’ateneo con lanci di sassi e granate assordanti, aule distrutte, finestre in frantumi, sassi sparsi sui gradini della scalinata che portano alla Great Hall della Wits.
Dopo due giorni di rivolta, il campus ieri mattina appariva militarizzato, con un pesante dispiegamento di poliziotti e guardie private. Nel pomeriggio la tensione è salita e la polizia ha sparato proiettili di gomma per disperdere i manifestanti in marcia nei dintorni dell’università, su Braamfontein street, nel centro di Johannesburg: due studenti sono rimasti feriti.
Ieri almeno 5 università tra cui la Wits, Uct a Cape Town, l’University of Pretoria, l’University of the Free State e la Nelson Mandela Metropolitan University hanno sospeso le attività accademiche per il resto della settimana.
L’ondata di proteste che sta colpendo le università in tutto il Sudafrica è stata innescata dall’annuncio lunedì del ministro per l’Higher Education and Training, Blade Nzimande, che autorizza gli atenei ad aumentare le tasse universitarie fino all’8% nel 2017. Un aumento – superiore a quello dell’inflazione attualmente del 6% – che renderà l’istruzione universitaria insostenibile e inaccessibile per molti studenti neri. Decisione invece accolta con favore dalle università che lamentano di essere alle prese con un collasso finanziario a danno della loro offerta accademica.
E in effetti, la decisione del governo fa seguito alla relazione del Council on Higher Education (Che) sullo sviluppo di un piano per la regolamentazione degli aumenti delle tasse nel settore dell’istruzione superiore nel 2017.
Per il Che il mancato aumento delle rette lascerebbe 19 università in una posizione finanziaria che insieme con il sotto-finanziamento minaccerebbe la sostenibilità del sistema di istruzione superiore.
Gli unici aspetti positivi di questa vicenda sono due, e cioè: il fatto che il ministro ha confermato che agli studenti che beneficiano dei sussidi del National Student Aid Financial Scheme (Nsfas) non saranno applicati gli aumenti previsti per le rette del 2017; l’introduzione di una seconda categoria di studenti esonerati dal pagamento di tasse maggiorate. Vale a dire quella fascia – la missing middle – di studenti i cui genitori guadagnano troppo per ottenere i prestiti del Nsfas, ma troppo poco per permettersi il pagamento delle tasse universitarie.
L’annuncio del ministro non è certo una buona notizia per una fetta importante della popolazione studentesca.
Lo dimostrano – sin dall’indomani della comunicazione ministeriale – le assemblee di massa, le manifestazioni di protesta e le richieste avanzate dal movimento degli studenti: non più un aumento dello 0% delle tasse ma una «free and decolonial high education».
Una buona parte di questi studenti, se non la principale, sono quelli della generazione born free, dei nati liberi, dei nati cioè nel 1994 o successivamente. Giovani sudafricani che non hanno vissuto sotto il regime della dominazione bianca ma che del sistema dell’apartheid hanno subito tutte le tragiche conseguenze per cui era stato architettato e che l’Anc ha solo in parte cercato di cambiare.
Una delle principali leggi dell’apartheid – il Bantu Education Act del 1953 – aveva l’obiettivo di evitare che i neri ricevessero un’istruzione che li avrebbe portati ad aspirare a posizioni che non sarebbe stato permesso loro di tenere nella società.
Non è più una questione di tasse alte. Piuttosto è l’intero sistema politico ed economico-sociale a essere messo in discussione. La rabbia e l’esasperazione degli studenti sta portando nelle strade e nei campus universitari il malcontento dei born free che pretendono quelle opportunità promesse quando l’apartheid è finita e delle famiglie nere con un reddito medio di gran lunga inferiore a quello delle famiglie bianche.
Le università hanno tre principali fonti di reddito: i sussidi governativi, le tasse universitarie e i finanziamenti privati.
Secondo Ground Up negli ultimi dieci anni, il sussidio statale è diminuito come componente del reddito universitario totale dal 49% al 40% (in seguito all’aumento del numero delle iscrizioni), mentre il contributo dalle tasse degli studenti è passato dal 24% al 31%.
In pratica, il contributo pubblico complessivo è costituito da un block grant(finanziamento a fondo perduto) e un earmarked grant (finanziamento destinato). Le università possono spendere il primo in gran parte come vogliono, mentre il finanziamento destinato è per una serie di specifiche aree di spesa, comprese le infrastrutture, la formazione, e il National Student finanziamento Aid (Nsfas).
Nel periodo 2000-2012 il block grant è sceso dal 88% al 72% del contributo totale del governo, mentre l’Nsfas è raddoppiata, dal 7% al 14%.
Nel 2012-2013 il governo ha contribuito con poco più di 24 miliardi di Zar (la moneta locale) di finanziamento totale alle università. Che equivale al 2,3% della spesa pubblica totale e a circa lo 0,76% del Pil.
Le proteste studentesche a livello nazionale del 2015 non hanno precedenti e hanno portato alla formazione di un movimento per la «decolonizzazione» dell’istruzione noto come #FeesMustFall e prima ancora #RhodesMustFall (dalla rimozione dal campus dell’University of Cape Town, Uct, della statua di Cecil Rhodes, imperialista britannico della fine dell’800, a conclusione di settimane di proteste durante le quali Chumani Maxwele, uno studente di politica, vi aveva rovesciato sopra un secchio di escrementi).
Un movimento che piano piano si è radicalizzato restando però inascoltato e che ha ispirato la formazione di movimenti simili in altre università che chiedono soprattutto una classe docente (meno bianca) e programmi di studi più rappresentativi della diversità del loro Paese.
Fonte: Il manifesto
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