di Pietro Raitano
Bisogna rendere il giusto merito a Paolo Pontoniere, il giornalista che, esattamente dieci anni fa, firma un pezzo per il settimanale l’Espresso dal titolo “Mutui a orologeria”. Il merito sta nell’essere probabilmente la prima persona a scrivere, in Italia, dei cosiddetti mutui subprime. L’articolo è del 21 settembre 2006, ed è una corrispondenza da San Francisco che si apre con le parole dell’economista George McCarthy, della Ford Foundation: la crisi deisubprime è una “bomba ai neutroni immobiliare”. Nel 2005 infatti i prestiti per l’acquisto di casa a famiglie statunitensi che non se lo potrebbero permettere rappresenta un terzo del mercato, e circa la metà degli acquisti dell’ultimo anno.
Prende la parola l’avvocato Richard Gleissner: “Mediatori senza scrupoli e banche irresponsabili ne approfittano proponendo [alle famiglie] strumenti finanziari estremamente controversi”. “E così -scrive Pontoniere- mentre si prospetta il rischio di una bolla dei mutui, con la possibilità che molti americani finiscano in strada, gli analisti cominciano a temere la possibilità di una crisi economica alla giapponese”. Spiega David Hendler, analista di New York: “La situazione statunitense è simile a quella giapponese, con l’unica differenza che il crollo dei mutui Usa innescherebbe una recessione di carattere planetario”.
Bisogna rendere il giusto merito a Paolo Pontoniere, il giornalista che, esattamente dieci anni fa, firma un pezzo per il settimanale l’Espresso dal titolo “Mutui a orologeria”. Il merito sta nell’essere probabilmente la prima persona a scrivere, in Italia, dei cosiddetti mutui subprime. L’articolo è del 21 settembre 2006, ed è una corrispondenza da San Francisco che si apre con le parole dell’economista George McCarthy, della Ford Foundation: la crisi deisubprime è una “bomba ai neutroni immobiliare”. Nel 2005 infatti i prestiti per l’acquisto di casa a famiglie statunitensi che non se lo potrebbero permettere rappresenta un terzo del mercato, e circa la metà degli acquisti dell’ultimo anno.
Prende la parola l’avvocato Richard Gleissner: “Mediatori senza scrupoli e banche irresponsabili ne approfittano proponendo [alle famiglie] strumenti finanziari estremamente controversi”. “E così -scrive Pontoniere- mentre si prospetta il rischio di una bolla dei mutui, con la possibilità che molti americani finiscano in strada, gli analisti cominciano a temere la possibilità di una crisi economica alla giapponese”. Spiega David Hendler, analista di New York: “La situazione statunitense è simile a quella giapponese, con l’unica differenza che il crollo dei mutui Usa innescherebbe una recessione di carattere planetario”.
Oggi sappiamo che McCarthy, Gleissner ed Hendler avevano ragione, ma ben pochi colsero l’allarme. I mutui rischiosi erano stati impacchettati -o meglio “cartolarizzati”- in prodotti finanziari “derivati” e distribuiti sui mercati finanziari, soprattutto quelli “over the counter”, ovvero fuori dai mercati regolamentati. Sarebbero stati l’innesco di una crisi economica dalle proporzioni colossali e dalle conseguenze durature. Ma dieci anni fa né la stampa mainstream, né gli economisti sembrano percepire fino in fondo il rischio. Il problema sembra relegato alle famiglie povere statunitensi. È il mercato, in fin dei conti. Questa volta è Daniela Roveda, da Los Angeles, per Il Sole 24 Ore, a fare il punto, ma siamo già a febbraio 2007. Non è un pezzo in prima pagina: occupa il taglio basso a pagina 7. Eppure le notizie ci sono, eccome: “Diciassette società di prestiti immobiliari sono andate a gambe all’aria negli ultimi nove mesi, la maggior parte tra dicembre e gennaio”. La crisi del settore immobiliare “potrebbe avere infinite e imprevedibili ripercussioni in molti angoli del settore finanziario per via della complessità e della ramificazione di questo tipo di strumento finanziario. Tra le istituzioni a rischio, è stata la HSBC, terza banca del mondo per valore di mercato, a far scoppiare la prima bomba la scorsa settimana, annunciando una contabilizzazione in perdita di 1,8 miliardi di dollari nel 2006”. Perfino Alan Greenspan, da poco ex presidente della Banca centrale statunitense -la Federal reserve- lancia a inizio anno allarmi su una possibile recessione. Il suo successore la vede diversamente, ancora a inizio marzo 2007: Ben Bernanke -da un anno in carica, rimarrà per otto in tutto- dimostra ottimismo quando afferma che i ribassi della Borsa di New York “non sembrano aver avuto un unico fattore scatenante. Non vedo alcun cambiamento significativo nelle nostre attese: ci aspettiamo una crescita moderata”. E infine: “Le recenti difficoltà nel segmento dei mutuisubprime non appaiono in procinto di scatenare contagi allargati”.
A marzo diventa famoso un economista 52enne, sino ad allora sconosciuto anche se con un passato al ministero del Tesoro Usa. Si chiama Nouriel Roubini e non usa mezzi termini: “Il quadro d’insieme mi dà la certezza che passeremo in tempi brevi a una crescita recessiva e poi a una vera e propria recessione. Il contagio dal settore immobiliare è già iniziato, l’avvitamento è cominciato e non c’è modo di fermarlo”. Ha perfettamente ragione, Roubini, ma fa parte di una minoranza. La maggioranza è rappresentata ancora da economisti come Gary Becker, premio Nobel per l’Economia: “I rischi sono contenuti” dichiara a metà marzo. Anche il Fondo monetario internazionale, ad aprile, sostiene che “la situazione è molto positiva”.
Sui giornali italiani gli articoli dedicati al tema rimangono una manciata fino all’estate 2007. A giugno le notizie che giungono dagli Stati Uniti cambiano la percezione: Bear Stearns, una delle principali banche del Paese, è in crisi a causa di un fondo specializzato in mutui subprime. Non è la sola. La parola “panico” si fa sempre più frequente. Tra luglio e dicembre 2007 i quotidiani italiani dedicano oltre 1.500 articoli alla crisi. Che ora è sotto gli occhi di tutti ed è una gigantesca incognita. A settembre Bernanke è lapidario: “La crisi è peggiore del previsto”.
Le agenzie di rating, da luglio 2007 a tutto il 2008, iniziano sistematicamente e inesorabilmente a declassare i titoli cartolarizzati, e cadono i primi colossi. Il 15 settembre 2008 la banca di investimento Lehman Brothers avvia le procedure fallimentari. In Europa la prima clamorosa caduta è per la Northern Rock, quinto istituto di credito britannico che viene nazionalizzato dal governo, per un impegno di 110 miliardi di sterline. Vari piani di salvataggio per istituti di credito in difficoltà sono predisposti in Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Svezia. Secondo il centro studi di Mediobanca, nel complesso gli aiuti erogati dai governi alle banche dei rispettivi sistemi nazionali raggiungeranno i 3.166 miliardi di euro in Europa, sotto forma di garanzie, ricapitalizzazioni e linee di credito e prestiti. Negli Stati Uniti il conto si chiuderà con 465 banche fallite tra il 2008 e il 2012: tra il 2000 e il 2007 erano state solo 37.
La crisi si trasmette velocemente dalla finanza all’economia “reale”, attaccando reddito e occupazione. Gli istituti bancari iniziano a restringere la concessione di credito a famiglie e imprese, crollano i mercati azionari e i prezzi delle abitazioni (mediamente del 20%).
Il commercio mondiale subisce un colpo duro e pressoché immediato: nel 2009 le esportazioni di merci crollano del 22% (per l’Italia quasi del 20%), il dato peggiore dei precedenti 20 anni. Vale anche per i servizi: -9%.
È la fine di un ciclo: la crescita del commercio internazionale era una costante sin dal 1995 -come rileva l’Organizzazione mondiale del commercio- con un vero e proprio boom tra il 2002 e il 2008. La tendenza riprenderà già nel 2011, ma in maniera “particolarmente debole”.
Le misurazioni del prodotto interno lordo globale danno conto del processo. La decennale curva rettilinea verso l’alto si ferma, si inverte, e segna -5%. Solo dal 2009 riprende a salire ma a quel punto il mondo davvero non è più lo stesso. Il 2008 segna infatti il momento -come emerge dai dati del Fondo monetario internazionale- in cui la percentuale di Pil prodotto dai Paesi “emergenti” e dalle economie in via di sviluppo supera quella prodotta dai Paesi “sviluppati”. Nello stesso periodo, i Paesi asiatici superano l’Europa. A peggiorare le cose nel vecchio continente arriva, nel 2010, quella che viene ricordata come la crisi del debito sovrano e le cui cause vengono fatte risalire sempre aisubprime statunitensi.
I problemi iniziano in Portogallo, Irlanda e Grecia: a quest’ultima i Paesi dell’Eurozona concedono, col Fondo monetario internazionale, un prestito di salvataggio di 110 miliardi di euro, mentre a novembre il governatore della Banca centrale irlandese rivela che le perdite delle banche del Paese ammontano a 85 miliardi di euro (all’epoca equivalente alla metà del prodotto interno lordo). Prestito di 78 miliardi di euro anche al Portogallo. Nel 2011 la dinamica investe anche l’Italia e la Spagna. Nel primo caso, i tassi di interesse sul debito arrivano anche al 7%: è allora che iniziamo a sentir parlare dello spread rispetto al Bund tedesco (ovvero il differenziale di rendimento tra i due titoli), che a novembre arriva a 570 punti base (ovvero il 5,7%, mentre oggi è appena l’1,25%). Dal debito sovrano alle banche il passo è breve: poiché sono per la maggior parte gli istituti di credito a detenere titoli di Stato, le difficoltà si riverberano sulle imprese e le famiglie. Inoltre, come scrive la Consob, l’organismo di controllo della Borsa italiana, “le manovre di contenimento della spesa (cosiddetta austerity) attuate prima dai governi degli Stati in difficoltà e poi da tutti gli Stati dell’Unione hanno infine concorso a rallentare la crescita inducendo, in alcuni casi, una vera e propria recessione”.
La misura di questa sta tutta nel dato sull’occupazione. Allo scoppio della crisi segue l’immediato innalzamento del tasso di disoccupazione, che in Europa balza dal 7,5% al 12%: in Italia si passa dal 6% del 2007 al 12,8% del 2014. Anche peggio va per Spagna (dall’8,2% del 2007 al 26,1% del 2013) e Grecia (dal 7,76% del 2008 al 27,4% del 2013). Col lavoro si fermano anche i salari, come certifica l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo). La risalita è lenta: “L’aumento globale dei salari, diminuito fortemente durante la crisi nel 2008 e nel 2009, ha conosciuto una breve ripresa nel 2010 per poi rallentare nuovamente -scrive l’Ilo-. A livello mondiale, i salari reali medi mensili, che erano aumentati del 2,2 per cento nel 2012, sono aumentati solo del 2% nel 2013; non hanno ancora raggiunto i livelli pre-crisi”. Tuttavia esistono forti variazioni tra regioni. Nel gruppo dei Paesi sviluppati, i salari sono rimasti “sostanzialmente fermi” nel 2012 e 2013, ma in alcuni Stati -Giappone, Grecia, Irlanda, Italia, Regno Unito e Spagna- nel 2013 i salari reali medi erano sotto il livello del 2007. In molti Paesi le disuguaglianze iniziano nel mercato del lavoro: nelle economie sviluppate, “si registra con maggiore evidenza -spiega ancora l’Ilo- una disparità tra il 10% più ricco e il 10% più povero delle famiglie, oppure in seno al ceto medio. Ciò è causato spesso da una combinazione tra aumento delle disparità salariali e perdita del lavoro”. Ne fanno le spese soprattutto i giovani: al culmine della crisi, nel 2009, i giovani alla ricerca di un lavoro erano 76,6 milioni. Il numero è sceso -dati Ilo 2014- a 73,3 milioni, eppure “non è facile essere giovani nel mercato del lavoro oggi” anche perché se ai disoccupati si sommano i giovani che pur lavorando non hanno reddito sufficiente, la percentuale balza al 42,6%.
In un report di luglio 2016, il McKinsey Global Institute misura la situazione: nelle economie dei 25 Paesi più sviluppati, solo il 30% delle famiglie dispone di un reddito reale maggiore rispetto a 10 anni fa. Il fenomeno riguardava tra il 1993 e il 2005 meno di 10 milioni di persone: tra il 2005 e il 2014 sono divenute 540 milioni. “Più poveri dei loro genitori?” è il titolo dello studio, impietoso verso l’Italia: il 97% delle famiglie non ha migliorato il proprio reddito negli ultimi 10 anni, se non è addirittura peggiorato.
I casi limite danno i contorni di un allarme sociale: a luglio 2016 l’Istat ha diffuso i dati sulla povertà in Italia, evidenziando come, innanzitutto, sia cresciuto sia pur di poco il numero di famiglie italiane in povertà assoluta (nel 2015 1,58 milioni a fronte degli 1,47 milioni dell’anno prima). Il dato non deve trarre in inganno, perché è cresciuto anche il numero di individui poveri (nel 2015 4,6 milioni di persone, il 7,6% della popolazione totale). La lettura dell’Istituto è chiara: il rischio di povertà è salito soprattutto per le famiglie “numerose”, ove per numerose, oggi, si intende una coppia con due figli. Sono povere l’8,6% delle famiglie di questo tipo: era il 5,9% solo un anno prima. La povertà aumenta quindi per le famiglie giovani, composte da adulti e minori, mentre rimane sostanzialmente stabile per gli anziani. Prima della crisi, erano gli anziani ad avere un’incidenza maggiore rispetto alle altre classi di età. Oggi sono i giovani.
C’è dell’altro: tra il 1999 e il 2013, nelle economie sviluppate e quindi anche in Italia, la produttività del lavoro ha superato la crescita dei salari reali. Ovvero l’aumento dei salari è stato più lento della crescita della produttività: una tendenza già presente prima del 2007, costante dal 2009.
Ne hanno forse tratto vantaggio le multinazionali, i colossi che da soli contribuiscono al 14% del prodotto interno lordo mondiale. Oggi le prime 200 controllano il 49% del fatturato di tutte le multinazionali, per un ammontare di quasi 21mila miliardi di dollari. Alle loro dipendenze una nazione di 40 milioni di persone.
A un mercato del lavoro che non funziona corrispondono livelli di disuguaglianza sempre più marcati: la crisi non è per tutti. Come ha rilevato Credit Suisse, a partire dal 2010 l’1% più ricco di individui nel mondo ha visto crescere la propria quota di ricchezza globale totale. Nel 2015 questa minoranza di individui possedeva il 48% della ricchezza globale, lasciando il 52% al restante 99% di individui sul pianeta. Secondo Credit Suisse, entro la fine del 2016 la quota in mano all’1% più ricco supererà il 50%. Manco a dirlo, 7.600 miliardi di dollari di ricchezza individuale (più dei Pil di UK e Germania messi insieme) sono attualmente custoditi in paradisi fiscali.
E se nel 2010 ci volevano 388 miliardari per raggiungere lo stesso volume di ricchezza posseduto dal 50% più povero della popolazione mondiale, nel 2015 ne “bastavano” 62: la loro ricchezza è aumentata del 44% in 5 anni. In Italia il numero di miliardari è triplicato dal 2002 a oggi, mentre il 20% più ricco della popolazione detiene oltre il 60% della ricchezza. Il 20% più povero -e tra questi le tante famiglie giovani formate da due adulti e due bambini- appena lo 0,4%. Secondo l’ong Oxfam, in molti Paesi Ue sono sempre di più i cittadini scesi sotto la soglia di povertà. Tra il 2009 e il 2013 “il numero delle persone soggette a grave deprivazione materiale è aumentato di 7,5 milioni nel complesso dei 27 Paesi Ue, registrando un incremento in 19 di essi”. Secondo l’organizzazione, le dinamiche che generano tali livelli di disuguaglianza e povertà nell’Ue sono varie: “In primo luogo ricchi individui, aziende e gruppi di interesse condizionano i processi decisionali politici piegandoli ai propri interessi, a tutto discapito dei cittadini comuni che di tali processi dovrebbero essere i beneficiari. Da ciò derivano maggiori livelli di disuguaglianza economica poiché i sistemi fiscali e le politiche di governo sono concepiti in modo tale da favorire pochi a discapito di molti. Con l’accumularsi della ricchezza al vertice della piramide sociale, la capacità delle élite di influenzare in misura sproporzionata i processi normativi aggrava ulteriormente la disuguaglianza”. In secondo luogo, i programmi di austerità attuati in alcuni Paesi Ue hanno trasferito “decisamente l’onere della riduzione del debito pubblico sulle spalle dei poveri e dei più vulnerabili, con gravi conseguenze per le società europee. Tali programmi prevedono tra l’altro l’aumento dell’imposizione fiscale regressiva, tagli alla spesa pubblica, la privatizzazione dei servizi pubblici, la riduzione dei salari e il deterioramento delle condizioni di lavoro”. Infine, in molti Paesi europei l’iniquità dei sistemi fiscali non corregge il divario di reddito ma, al contrario, “contribuisce di fatto ad allargare il baratro della disuguaglianza: tali sistemi fiscali sono fortemente sbilanciati verso una più pesante tassazione del lavoro e del consumo rispetto al capitale e consentono così ai soggetti ad alto reddito, ai ricchi e alle aziende con maggiori profitti di sottrarsi ai propri obblighi fiscali, trasferendo il peso dell’imposizione sulle spalle dei comuni cittadini. In questo contesto, il costo stimato dell’elusione ed evasione fiscale nell’Ue ammonta a 1.000 miliardi di euro l’anno in termini di perdita di gettito, una cifra pari al doppio degli investimenti totali nella sanità pubblica dei Paesi Ue”.
Foonte: Altreconomia
Originale: http://altreconomia.it/romanzo-della-crisi/
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