di Gigi Roggero
Ci sono epoche e ci sono semplici periodi storici. Cos’è un’epoca? Una fase in cui tutto diventa possibile. Cosa contraddistingue un’epoca? Innanzitutto una cosa: la crisi, in senso forte, profondo, complessivo, sistemico. Quella in cui pensa e agisce Joseph Roth è indubbiamente un’epoca, la grande epoca del Novecento: quella che esplode nella prima guerra mondiale, che porta in grembo la rivoluzione, che apre la storia a direzioni completamente differenti e fino a poco prima impensabili. E ancora una volta, epoca e crisi sono un tutt’uno. Roth non è il prodotto deterministico dell’epoca, certo. Tuttavia, è altrettanto certo, senza quella grande epoca sarebbero cambiate le condizioni di possibilità perché un Roth si producesse.
E Roth è stato un grande, grandissimo non solo scrittore, ma interprete delle trasformazioni soggettive e collettive di quell’epoca. A poco ci interessa se Roth sia stato socialista o monarchico, se fosse effettivamente “il rosso”, come firmava alcuni suoi articoli, oppure legittimista e un po’ nostalgico. Per noi Roth è una miniera d’oro, e forse proprio quell’occhio del grande conservatore disincantato, travolto dalla dissoluzione dell’impero asburgico e da tutto ciò che era solido, alla Musil, lo rende ancora più prezioso e capace di cogliere ciò che i sinistri non possono arrivare a comprendere. Meglio un grande reazionario che un piccolo rivoluzionario, si diceva una volta. È ancora così.
Esempio di quella grandezza è La ribellione, scritto nel 1924. La storia parte dal cuore della prima guerra mondiale, e non potrebbe essere altrimenti. Andreas Pum è un soldato, orgoglioso di aver combattuto per la patria e per l’ordine, tanto da aver loro regalato per sempre una gamba. Era soddisfatto di come andavano le cose, aveva ricevuto una decorazione in cambio dell’arto mutilato, era contento quando vedeva che quelli vicino a lui soffrivano. Credeva in un Dio giusto, che distribuiva pallottole e amputazioni, ma anche medaglie a chi se le meritava. Credeva nel governo, perché “il governo è una cosa che sta sopra gli uomini, così come il cielo sta sopra la terra”. Ciò che viene da quell’entità superiore può essere un bene o un male, non conta, perché è comunque “una cosa grande, ultrapotente, insondata e insondabile”. Andreas disprezza i commilitoni che imprecano contro il governo, uomini senza Dio, senza Imperatore, senza Patria, “insomma, dei pagani”. Andreas era compiaciuto di questo termine: sono pagani quelli che stanno in prigione e uccidono, che rubano e disertano, sono pagani i ribelli e i bolscevichi.
A lui, a differenza degli arroganti pagani, il governo avrebbe sicuramente provveduto. Gli avrebbe dato una piccola rivendita di francobolli, o comunque avrebbe ricambiato la sua fedeltà all’ordine costituito con una promessa di sicurezza, magari avrebbe trovato moglie, poi la pensione garantita. Andreas sgomita tra i commilitoni, scavalca ciechi, paralitici e uomini colpiti alla spina dorsale, mangia tutto alla mensa, non si lamenta di niente. È grato al governo, è grato a Dio, è grato all’ordine costituito. Chi si lamenta è un pagano che non merita nulla. E Andreas effettivamente riesce a tornare a casa. Senza la gamba, ovviamente, e a dire il vero nemmeno con la rivendita di francobolli sognata; ma perlomeno con un organetto, con cui può andare in giro a raccogliere un po’ di soldi. E soprattutto con la sua licenza che certifica che lui, Andreas Pum, è un mutilato di guerra, che ha combattuto per la patria e l’ordine, che è meritevole di rispetto e ammirazione da parte del governo.
Il protagonista trova anche una moglie, la vedova di un uomo che dalla guerra non è tornato. Lei lo sposa per interesse, lo scarica per il medesimo motivo. Ma non finiscono qui le disgrazie di Andreas: un giorno sul tram incappa nelle ire di un potente imprenditore, di ritorno dall’ufficio del suo avvocato che lo difende per aver molestato la sua segretaria. Il ricco notabile dà ad Andreas dell’impostore e del falso invalido, peggio ancora lo accusa di essere un bolscevico. Proprio lui, Andreas Pum, fiero nemico dei pagani, accusato di essere un pagano. Andreas reagisce, lo aggredisce, il bigliettaio e i passeggeri lo cacciano giù dal tram, un poliziotto lo ferma e gli requisisce la licenza.
Da qui inizia una nuova storia per Andreas Pum, che viene sbattuto in galera senza nemmeno un processo. Ma soprattutto, qui inizia a crollare quella promessa che aveva assunto le forme di una piccola rivendita di francobolli, poi di un organetto, comunque della gratitudine del governo. Andreas non crede più in Dio, non crede più nella Patria, non crede più nel Governo. Andreas diventa un ribelle, un pagano. E finisce, stretto nell’abbraccio della morte, per immaginare un tribunale in cui rovescia i ruoli: seduto sul banco degli imputati si rivolta alla giustizia del potere, non la riconosce, accusa Dio e i suoi scherani: “Dalla fedeltà più devota mi sono destato alla sfida, rossa e ribelle. Dio, se io fossi vivo e non qui al Tuo cospetto, vorrei rinnegarTi. Ma giacché ti vedo con i miei occhi e Ti sento con le mie orecchie, dovrò far di peggio che rinnegarTi: dovrò ingiuriarTi!”. Il giudice alza la mano e interviene, offre ad Andreas un posto in un museo, o di fare il custode in un parco, o se preferisce quella che un tempo fu un’agognata piccola tabaccheria all’angolo di una strada. “Voglio andare all’inferno!”, è la risposta di Andreas. La fedeltà all’ordine costituito è infranta per sempre: qui si apre la possibilità rivoluzionaria, qui il romanzo finisce, insieme alla vita del protagonista.
Una volta, in quell’epoca in cui vive, pensa e scrive Roth, la rivoluzione si fece trasformando la guerra imperialista in guerra civile. Ora, quando la guerra è per certi versi dappertutto ma sembra essere in nessun luogo, quell’indicazione non può più essere concretizzata negli stessi termini. Resta però il metodo: trasformare qualcosa in qualcos’altro. Quel qualcosa è l’accettazione, quel qualcos’altro è il conflitto. La crisi, quella contemporanea, ha messo in movimento una composizione sociale estremamente allargata, frastagliata, contraddittoria. Perché la crisi è sempre anche crisi delle identità e soggettività costituite, costituite nel rapporto sociale capitalistico. Questo movimento può assumere direzioni differenti e opposte, così come è stato un secolo fa. Il nostro problema, oggi come allora, è dunque come agiamo la trasformazione dentro quella composizione, come cioè stiamo progettualmente al suo interno, dove scommettiamo, in che direzione agiamo. Andreas Pum ci impartisce una lezione: chi è fedele all’ordine è perché da quell’ordine ci guadagna, o pensa di guadagnarci. Nel momento in cui quell’ordine non gli conviene più, o addirittura è percepito come la fonte dell’attacco alle proprie condizioni di vita, ne diventa nemico. La rottura del patto di fiducia può dunque, in tempi estremamente accelerati, rovesciare la cieca fedeltà in odio per le istituzioni. E ancora: la soggettività delle figure che iniziano a lottare per un obiettivo limitato, contraddittorio o addirittura a noi avverso, è sottoposta a un processo di trasformazione quando quell’obiettivo si rivela irraggiungibile. Quando la rivendita di francobolli è irrealizzabile, e perfino la gratitudine del governo si dimostra fatua, si apre potenzialmente tutt’altra strada, quella che va – consapevolmente o inconsapevolmente – alla radice delle cose, per colpirla. Ripiombiamo sul presente: cosa succede al ceto medio che lotta per restaurare la propria forma di vita passata, nel momento in cui si rende conto che quella forma di vita non è più restaurabile, che l’ordine costituito non può più mantenere le promesse con cui remunerava l’obbedienza? La lotta, infatti, è un processo al cui interno le soggettività cambiano radicalmente, si sovvertono, possono distruggere la precedente identità per crearne una nuova. Quanti Andreas Pum abbiamo visto in questi anni, nel movimento dei forconi, tra chi ha votato per la Brexit, chi si contrappone al salvabanche. È lì che noi dobbiamo agire, nella carne e nel sangue della crisi, nel vivo della sua forza tellurica, è lì che si gioca una partita decisiva.
Chi ritiene che gli Andreas Pum siano ontologicamente reazionari, non capisce nulla della crisi, non capisce nulla della lotta. O più semplicemente, gode o pensa ancora di godere di una qualche convenienza dall’ordine costituito, magari come suo compatibile critico o isola marginale di innocuo dissenso. Morirà con la sinistra, finalmente. Lasciamolo compiacersi dei buoni sentimenti e di ideologie disincarnate, mentre noi rileggiamo con Roth le misteriose curve soggettive della retta. Così capiremo che l’epoca non è inscritta nell’oggettività dello sviluppo storico, nelle convulsioni del capitale, nelle sue contraddizioni interne. L’epoca appartiene alla capacità di trasformare le ambiguità in campo d’azione, in movimento di rottura, in processo di sovversione. L’epoca non ci viene consegnata dalla storia. Ce la dobbiamo conquistare.
Fonte: commonware.org
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